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TRIESTE
E LA SUA
STORIA
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Trieste di ieri e di oggi
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Trieste, (Trst in sloveno), (Triest in tedesco), è un comune italiano, capoluogo della Regione Friuli-Venezia Giulia, e più in particolare della Venezia Giulia.
Coordinate geografiche 45°38′10″ Nord
- 13°48′15″ Est
Altitudine 2 m sul livello del mare
Superficie 84,50 km²
Abitanti: 204.420 al 31-12-2015
(andamento demografico in diminuzione)
Comuni confinanti: Duino-Aurisina (Devin Nabrežina), Erpelle-Cosina (SLO),
Monrupino (Repentabor), Muggia, San Dorligo della Valle (Dolina), Sesana (SLO),
Sgonico (Zgonik)
Cod. postale 34121-34151 (aboliti 34012, 34014, 34017)
Prefisso 040
Targa TS
Nome abitanti: triestini
Patrono: san Giusto (si festeggia il 3 novembre)
Lo stemma duecentesco della Città di Trieste, approvato con Decreto del Capo del Governo del 3 luglio 1930, nel "Libro Araldico" degli enti morali riporta la seguente blasonatura: "Scudo francese antico di color rosso con un'alabarda argento (alabarda, o lancia di San Sergio) sovrastato da corona muraria. « Di rosso all'alabarda di San Sergio d'argento ».
Bandiera della città di Trieste
Si presenta con l'alabarda di san Sergio in campo rosso.
Gonfalone della città di Trieste: Drappo rosso caricato dall'alabarda di San Sergio con la iscrizione centrata in oro “Città di Trieste”.
Sia lo stemma che gonfalone sono oggetto di speciale concessione; il gonfalone presenta la lancia libera in campo rosso ed è decorato con una medaglia d'oro al valor militare, concessa il 9 novembre 1956, per il patriottismo dimostrato dalla città durante gli eventi bellici.
La leggenda vuole che lo stemma di Trieste abbia origine dal martirio di San Sergio (miracolo di San Sergio), ove l'alabarda cadde dal cielo sulla piazza maggiore di Trieste, lo stesso giorno in cui il santo venne martirizzato, nel 336.L'alabarda conservata nel tesoro della cattedrale di San Giusto, ritenuta inattaccabile dalla ruggine, definito come spiedo alla furlana, era in uso nella zona come arma nel XIV secolo; non è stato possibile definirne né l'epoca, né la provenienza.
Un uso dell'alabarda quale stemma cittadino si può ipotizzare a partire dalla nascita del Libero Comune, i cui primi documenti sono del 1139. Le prime testimonianze certe dell'uso della lancia di San Sergio risalgono al XIII secolo, quando lo stemma compare sul rovescio di alcune monete coniate fra il 1237 ed il 1253, dopo che il comune ebbe la facoltà di battere moneta dal vescovo Volrico De Portis. Sui sigilli più antichi Trieste recava le mura merlate di una città, con tre torri e tre porte sulla facciata (raffigurazione della città), con l'alabarda su un'asta ed intorno la legenda in versi: "sistilanum publica castilir mare certos dat michi fines"; la legenda segnava i confini del territorio comunale. Lo stemma risulta presente in due capilettera degli Statuti Comunali del 1350: nel primo è raffigurato San Sergio impugnante la lancia e imbracciante uno scudo triangolare su cui è presente il simbolo cittadino, mentre nel secondo è riportato un banditore con l'alabarda dipinta sul mantello di colore rosso. L'arma viene anche menzionata nel testo essendo presente nella bolla in ferro che i capitani della guardia notturna alle mura si trasmettevano tra di loro durante il servizio. Il blasone formato dalla lancia bianca in campo triangolare rosso rimarrà in uso fino alla metà del XV secolo.
Il nome Tergeste è
di origine preromana, con base preindoeuropea: terg = mercato,
ed il suffisso –este, tipico dei toponimi venetici. In
alternativa, si ritrova proposta l'origine latina del nome "tergestum"
(riportata dal geografo di età augustea Strabone), legata al
fatto che i legionari romani dovettero combattere tre battagle
per avere ragione delle popolazioni indigene ("Ter-gestum bellum",
dal latino "ter" = tre volte e "gerere bellum" = far guerra, cui
il participio passato da "gestum bellum").
Sin dal II millennio a.C. il territorio della provincia di
Trieste fu sede di importanti insediamenti protostorici, i
castellieri, villaggi arroccati sulle alture e protetti da
fortificazioni in pietra, i cui abitanti appartenevano a
popolazioni di probabile origine illirica e di stirpe
indoeuropea. Fra il X e il IX secolo a.C. la popolazione
autoctona entrò in contatto con un'altra etnia indoeuropea, i (Venetici,
Heneti o Eneti), da cui venne notevolmente influenzata sotto il
profilo culturale.
Tergeste si sviluppò e prosperò in epoca imperiale, imponendosi come uno dei porti più importanti dell'alto Adriatico sulla via Popilia-Annia. Il nucleo abitativo nel 33 a.C. venne cinto da alte mura (ancora visibile la porta meridionale, il cosiddetto Arco di Riccardo) da Ottaviano Augusto (murum turresque fecit) e venne arricchito da importanti costruzioni quali il Foro ed il Teatro.
Dopo la caduta
dell'Impero Romano d'Occidente, la città passò sotto il
controllo dell'impero bizantino fino al 788, quando venne
occupata dai franchi. Nel 1098 risultava già diocesi vescovile
con il nome latino di Tergestum. Nel XII secolo divenne un
Libero Comune e dopo secoli di battaglie contro la rivale
Venezia, Trieste si pose sotto la protezione (1382) del duca
d'Austria conservando però una notevole autonomia fino al XVII
secolo.
Nel 1719 divenne porto franco ed in quanto unico sbocco sul mare
Adriatico dell'Impero Austriaco, Trieste fu oggetto di
investimenti e si sviluppò diventando, nel 1867, capoluogo della
regione del Litorale Adriatico dell'impero (l'"Adriatisches
Küstenland"). Nonostante il suo stato privilegiato di unico
porto commerciale della Cisleithania e primo porto dell'Austria-Ungheria,
Trieste conservò sempre in primo piano, nei secoli, i legami
culturali con l'Italia; infatti, anche se la lingua ufficiale
della burocrazia era il tedesco, l'italiano era la lingua del
commercio e della cultura. Nel XVIII secolo il dialetto
triestino (dialetto di tipo veneto) sostituì il tergestino,
l'antico dialetto locale di tipo retoromanzo. Il triestino,
parlato anche da scrittori e filosofi, continua ad essere
tuttora l'idioma più usato in ambito familiare e in molti
contesti sociali di natura informale e talvolta anche formale,
affiancandosi, in una situazione di diglossia, all'italiano,
lingua amministrativa e principale veicolo di comunicazione nei
rapporti di carattere pubblico.
Trieste fu, con Trento, oggetto e al tempo stesso centro di
irredentismo, movimento che, negli ultimi decenni del XIX secolo
e agli inizi del XX aspirava ad un'annessione della città
all'Italia. Ad alimentare l'irredentismo triestino erano
soprattutto le classi borghesi in ascesa (ivi compresa la
facoltosa colonia ebraica), le cui potenzialità ed aspirazioni
politiche non trovavano pieno soddisfacimento all'interno
dell'Impero austro-ungarico. Quest'ultimo veniva visto da molti
come un naturale protettore del gruppo etnico slavo (verbali del
consiglio dei ministri imperiali asburgici del 1866, dopo la
perdita di Venezia, per ridurre dove possibile l'influenza
dell'elemento italiano, in favore di quello germanico o slavo
quando questi fossero presenti) che viveva sia in città che in
quelle zone multietniche che costituivano il suo immediato
retroterra (che iniziò ad essere definito in quegli anni con il
termine di Venezia Giulia).
L'imperatore Francesco Giuseppe ordinò infatti una politica di "germanizzazione"
e "slavizzazione" che andava contro gli Italiani che vivevano
nel suo impero. Il sovrano ordinò: "si operi nel Tirolo del Sud,
in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la
slavizzazione [Germanisierung oder Slawisierung] di detti
territori [...], con energia e senza scrupolo alcuno": così
recitava il verbale del Consiglio della Corona del 12 novembre
1866. Il termine "Litorale" era impiegato nell'amministrazione
asburgica per indicare la Venezia Giulia, quindi anche Trieste.
Fra le molte misure di germanizzazione e slavizzazione promosse
dal governo e dall'amministrazione asburgica vi furono delle
espulsioni di massa imposte dal governatore triestino, principe
Hohenlohe, che provocarono la fuoriuscita forzata di circa
35.000 italiani da Trieste fra il 1903 ed il 1913. Nel 1913,
dopo un altro decreto del principe Hohenlohe che prevedeva
espulsioni d'Italiani, i nazionalisti slavi suoi sostenitori
tennero un pubblico comizio contro l’Italia, per poi svolgere
una manifestazione al grido di “Viva Hohenlohe! Abbasso
l’Italia! Gli Italiani al mare!”, tentando poi di assalire lo
stesso Consolato italiano.
Si ebbero inoltre altre iniziative repressive o discriminatorie
nei confronti degli italiani, fra cui anche episodi di violenza
e vittime. A Trieste tra il 10 e il 12 luglio 1868, si ebbero
violenze sugli Italiani da parte di soldati asburgici arruolati
fra gli sloveni locali, che provocarono diversi morti e un gran
numero di feriti fra gli italiani. Una delle vittime, Rodolfo
Parisi, fu massacrato con 26 colpi di baionetta. L'impero cercò
inoltre di diffondere il più possibile scuole tedesche
(esistevano scuole medie tedesche anche a Trieste, come in molte
altre località limitrofe) od in alternativa slovene e croate,
tagliando i fondi alle scuole italiane od anche proibendone la
costruzione, proprio per cancellare la cultura italiana, così
come avveniva negli stessi anni in Dalmazia. Gli stessi libri di
testo furono sottoposti a rigide forme di censura, con esiti
paradossali, come l'imposizione di studiare la letteratura
italiana su testi tradotti dal tedesco o la proibizione di
studiare la stessa storia di Trieste, perché ritenuta "troppo
italiana". L'autonomia triestina venne ad essere drasticamente
ridotta dal "centralismo viennese" che "aveva attentato" sin dal
1861 "ai resti della vita autonomistica, specialmente a
Trieste". Infatti, era volontà del governo austriaco di
"indebolire i poteri e la forza politica ed economica del comune
di Trieste controllato dai nazionali-liberali Italiani,
ritenendolo giustamente il cuore del liberalismo nazionale in
Austria e delle tendenze irredentiste". Questo prevedeva anche
la recisione degli "stretti rapporti politici, culturali e
sociali fra i liberali triestini e l'Italia". Poiché all'interno
della comunità ebraica triestina erano diffuse idee irredentiste
e filotaliane, le autorità imperiali cercarono anche di
diffondere l'antisemitismo in funzione antirredentista ed
antitaliana.
In realtà agli inizi del Novecento il gruppo etnico sloveno era
in piena ascesa demografica, sociale ed economica, e, secondo il
discusso censimento del 1910, costituiva circa la quarta parte
dell'intera popolazione triestina. Ciò spiega come
l'irredentismo assunse spesso, nella città giuliana, dei
caratteri marcatamente anti-slavi che vennero perfettamente
incarnati dalla figura di Ruggero Timeus. La convivenza fra i
vari gruppi etnici che aveva da secoli contraddistinto la realtà
sociale di Trieste (e di Gorizia) subì, pertanto, un generale
deterioramento fin dagli anni che precedettero la prima guerra
mondiale.
Nel 1918 il Regio esercito entrò a Trieste acclamato dalla
maggioranza della popolazione, che era di sentimenti italiani.
La sicura imminente annessione della città e della Venezia
Giulia all'Italia, fu però accompagnata da un ulteriore
inasprimento dei rapporti tra il gruppo etnico italiano e quello
sloveno, traducendosi talvolta anche in scontri armati. A tale
proposito furono emblematici, il giorno 13 aprile 1920, i
disordini scoppiati a Trieste in seguito di un attentato contro
l'esercito italiano di stanza a Spalato, che aveva causato due
vittime fra i militari. Durante i disordini, contraddistinti da
un marcato carattere anti-slavo, un gruppo di squadristi
triestini presidiò l'Hotel Balkan, ove aveva sede il Narodni dom
(Casa Nazionale), centro culturale degli sloveni e delle altre
nazionalità slave locali, che fu dato alle fiamme. «Il rogo...mostra
con le fiamme, che ben si possono scorgere da diversi punti
della città, la forza del fascismo in attesa».
Con la firma del Trattato di Rapallo del novembre 1920, Trieste
passò definitivamente all'Italia, inglobando, nel proprio
territorio provinciale, zone dell'ex Contea di Gorizia e
Gradisca, dell'Istria e della Carniola.
Il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale fu segnato
da numerose difficoltà per Trieste. L'economia della città fu
colpita infatti dalla perdita del suo secolare entroterra
economico; ne soffrì soprattutto l'attività portuale e
commerciale, ma anche il settore finanziario. Trieste perse la
sua tradizionale autonomia comunale e cambiò anche la propria
configurazione linguistica e culturale; quasi la totalità della
comunità germanofona lasciò infatti la città dopo l'annessione
all'Italia; con l'avvento del fascismo l'uso pubblico delle
lingue slovena e tedesca fu proibito e vennero chiuse le scuole,
i circoli culturali e la stampa della comunità slovena.
Moltissimi sloveni così emigrarono nel vicino Regno di
Jugoslavia.Un fenomeno analogo si era avuto, poco prima, ma in
senso inverso, con la fuga dei dalmati italiani dalle loro
ataviche terre, dinnanzi alle persecuzione attuate dai
serbocroati, una volta che la Dalmazia era stata annessa al
regno di Jugoslavia. Dalla fine degli anni venti, cominciò
l'attività sovversiva dell'organizzazione antifascista e
irredentista sloveno-croata TIGR, con alcuni attentati
dinamitardi anche nel centro cittadino.
Nonostante i problemi economici e il teso clima politico, la
popolazione della città crebbe negli anni venti del Novecento,
grazie soprattutto all'immigrazione da altre zone dell'Italia.
La prima metà degli anni trenta furono invece anni di ristagno
demografico, con una leggera flessione della popolazione
dell'ordine di circa l'1% su base quinquennale (nel 1936 si
contarono infatti quasi duemila abitanti in meno che nel 1931).
Nello stesso periodo, e successivamente, fino allo scoppio della
seconda guerra mondiale, furono portate avanti alcune importanti
opere urbanistiche; tra gli edifici più rilevanti vanno
ricordati il palazzo dell'Università e il Faro della vittoria.
Con l'introduzione delle leggi razziali fasciste del 1938, la
vita culturale ed economica della città subì un ulteriore
degrado dovuto all'esclusione della comunità ebraica dalla vita
pubblica.
Nel periodo che va dall'armistizio (8 settembre 1943)
all'immediato dopoguerra, Trieste fu al centro di una serie di
vicende che hanno segnato profondamente la storia del capoluogo
giuliano e della regione circostante e suscitano tuttora accesi
dibattiti. Nel settembre del 1943 la Germania nazista occupò
senza alcuna resistenza la città che venne a costituire, insieme
a tutta la Venezia Giulia una zona di operazioni di guerra, l'OZAK
(Operationszone Adriatisches Küstenland), alle dirette
dipendenze del Gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer. Egli
tollerò in città la ricostituzione di una sede del PFR, diretta
dal federale Bruno Sambo, la presenza di un'esigua forza di
militari italiani al comando del generale della GNR Giovanni
Esposito e l'insediamento di un reparto della Guardia di
Finanza. Si riservò però la nomina del podestà, nella persona di
Cesare Pagnini, e del prefetto della provincia di Trieste, Bruno
Coceani, entrambi ben accetti ai fascisti locali, alle autorità
della RSI e allo stesso Mussolini, che conosceva personalmente
Coceani. Durante l'occupazione nazista la Risiera di San Sabba -
oggi Monumento Nazionale e museo - venne destinata a campo di
prigionia e di smistamento per i deportati in Germania e Polonia
e per detenuti politici, partigiani italiani e slavi. La
presenza del forno crematorio nella Risiera testimonia che non
fu utilizzata solo come luogo di smistamento e di detenzione di
prigionieri, ma anche come campo di sterminio. Si tratta
dell'unico campo di concentramento nazista presente in
territorio italiano. In seguito, nei primi anni cinquanta la
Risiera fu usata come campo profughi per gli esuli istriani,
fiumani e dalmati in fuga dai territori passati alla sovranità
jugoslava.
L'insurrezione dei partigiani italiani e jugoslavi a Trieste fu
contraddistinta da uno svolgimento anomalo. Il 30 aprile 1945 il
Comitato di Liberazione Nazionale del quale era presidente don
Edoardo Marzari, composto da tutte le forze politiche
antifasciste con l'eccezione dei comunisti, proclamò
l'insurrezione generale; al tempo stesso le brigate dei
partigiani jugoslavi con l'appoggio del PCI attaccarono
dall'altipiano. Gli scontri si registrarono principalmente nelle
zone di Opicina (sull'altipiano carsico), del Porto Vecchio, del
castello di San Giusto e dentro il Palazzo di Giustizia, in
città. Tutto il resto della città fu liberato. Il comando
tedesco si arrese solo il 2 maggio alle avanguardie
neozelandesi, che precedettero di un giorno l'arrivo del
generale Freyberg. Le brigate partigiane jugoslave di Tito erano
già giunte a Trieste il 1º maggio e i suoi dirigenti convocarono
in breve tempo un'assemblea cittadina composta da cittadini
jugoslavi e da due italiani. Questa assemblea proclamò la
liberazione di Trieste, così presentando i partigiani di Tito
come i veri liberatori della città agli occhi degli alleati
spingendo i partigiani non comunisti del CLN a rientrare nella
clandestinità.
Gli jugoslavi esposero sui palazzi la bandiera jugoslava, il
Tricolore italiano con la stella rossa al centro e le bandiere
rosse con la falce e martello. Le brigate jugoslave, giunte a
Trieste a marce forzate per precedere gli anglo-americani nella
liberazione della Venezia Giulia, non contenevano nessuna unità
partigiana italiana inserita nell'Esercito jugoslavo, mandate
invece a operare altrove, benché molti triestini (italiani e
sloveni) vi fossero compresi. Gli alleati (nello specifico la
Seconda divisione neozelandese, che fu la prima ad arrivare in
città), riconobbero che la liberazione era stata compiuta dai
partigiani di Tito e in cambio chiesero e ottennero la gestione
diretta del porto e delle vie di comunicazione con l'Austria
(infatti, non essendo ancora a conoscenza del suicidio di Hitler,
gli angloamericani stavano preparando il passo ad un'invasione
dell'Austria e quindi della Germania). L'esercito jugoslavo
assunse i pieni poteri. Nominò un Commissario Politico, Franc
Štoka, membro del partito comunista. Il 4 maggio vennero emanati
dall'autorità jugoslava a Trieste, il Comando Città di Trieste (Komanda
Mesta Trst) gli ordini 1, 2, 3 e 4 che proclamano lo stato di
guerra, impongono il coprifuoco (a combattimenti terminati) e
uniformano il fuso orario triestino a quello jugoslavo.
Limitarono la circolazione dei veicoli e prelevarono dalle
proprie case numerosi cittadini, sospettati di nutrire scarse
simpatie nei confronti della ideologia che guidava le brigate
jugoslave. Fra questi non vi furono solo fascisti o
collaborazionisti, ma anche combattenti della Guerra di
Liberazione. Un memorandum statunitense dell'8 maggio recitava:
« A Trieste gli Jugoslavi stanno usando tutte le familiari
tattiche di terrore. Ogni italiano di una qualche importanza
viene arrestato. Gli Jugoslavi hanno assunto un controllo
completo e stanno attuando la coscrizione degli italiani per il
lavoro forzato, rilevando le banche e altre proprietà di valore
e requisendo cereali e altre vettovaglie in grande quantità. »
L'otto maggio proclamarono Trieste città autonoma in seno alla
Repubblica Federativa di Jugoslavia. Sugli edifici pubblici
fecero sventolare la bandiera Jugoslava affiancata dal Tricolore
italiano con la stella rossa al centro. La città visse momenti
difficili, di gran timore, con le persone dibattute tra idee
profondamente diverse: l'annessione alla Jugoslavia o il ritorno
all'Italia. In questo clima si verificarono confische,
requisizioni e arresti sommari. Vi furono anche casi di vendette
personali, in una popolazione esasperata dagli eventi bellici e
dalle contrapposizioni del periodo fascista. Invano i triestini
sollecitarono l'intervento degli Alleati. Il comando alleato e
quello jugoslavo raggiunsero infine un accordo provvisorio
sull'occupazione di Trieste. Il 9 giugno 1945 a Belgrado, Josip
Broz Tito, verificato che Stalin non era disposto a sostenerlo,
concluse l'accordo con il generale Alexander che portò le truppe
jugoslave a ritirarsi dietro la linea Morgan. Gli alleati
assunsero allora il controllo della Città e del suo hinterland.
Le rivendicazioni jugoslave e italiane nonché l'importanza del
porto di Trieste per gli Alleati furono la spinta nel 1947,
sotto l'egida dell'ONU, alla istituzione del "Territorio libero
di Trieste" (TLT). Per l'impossibilità di nominare un
Governatore scelto in accordo tra angloamericani e sovietici, il
TLT rimase diviso in due zone d'occupazione militare: la Zona A
amministrata dagli Angloamericani e la Zona B amministrata dagli
jugoslavi.
Tale situazione si protrasse fino al 1954 quando il problema
venne risolto confermando la spartizione del territorio libero
di Trieste secondo le due zone già assegnate: anzi, furono
incorporati alla Jugoslavia alcuni villaggi della zona A (Albaro
Vescovà, San Servolo, Crevatini, Elleri, Plavie, Ancarano e
Valle Oltra) appartenenti al comune di Muggia, che vide in tal
modo dimezzato il proprio territorio. La frontiera fra la zona
assegnata all'amministrazione italiana e quella occupata dalla
Jugoslavia venne così a passare sui rilievi che sovrastavano la
periferia meridionale della cittadina istriana.
Tale situazione provvisoria fu resa definitiva nel 1975, col
Trattato di Osimo stipulato tra l'Italia e la Jugoslavia, nel
quale si dichiarava il definitivo ritorno della città
all'Italia. Nel 1962 Trieste divenne capoluogo della Regione
Autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Nel 2004, assieme ad altri Paesi, la Slovenia entra a far parte
dell'Unione Europea e solo 3 anni più tardi la vicina Repubblica
aderisce ai trattati di Schengen, facendo perdere quindi a
Trieste la sua decennale posizione di città di confine.
Geografia
La città è situata nell'estremo nord-est italiano, vicino al
confine con la Slovenia, nella parte più settentrionale
dell'Alto Adriatico e si affaccia sull'omonimo golfo. Il
territorio cittadino è occupato prevalentemente da un pendio
collinare che diventa montagna anche nelle zone limitrofe
all'abitato; si trova ai piedi di un'imponente scarpata che
dall'altopiano del Carso scende bruscamente verso il mare. Il
monte Carso, a ridosso della città, raggiunge la quota di 458
metri sul livello del mare. Il comune di Trieste è diviso in
varie zone climatiche a seconda della distanza dal mare o
dell'altitudine. Al di sotto delle arterie stradali cittadine
scorrono corsi d'acqua che provengono dall'altopiano. Liberi un
tempo di scorrere all'aperto, da quando la città si è
sviluppata, a partire dalla seconda metà del 1700, vennero
incanalati in apposite condutture ed ancora oggi percorrono i
sotterranei delle odierne via Carducci (precedentemente via del
Torrente, appunto), via Battisti (ex Corsia Stadion), viale
venti Settembre (ex viale dell'Acquedotto), via delle Sette
fontane o piazza tra i Rivi. A sud della città scorre il Rio
Ospo che segna il confine geografico con l'Istria. Inoltre
l'attuale zona cittadina compresa tra la stazione ferroviaria,
il mare, "via Carducci" e Piazza della Borsa, il Borgo Teresiano,
venne edificata nel XVIII secolo dopo l'interramento delle
precedenti saline per ordine dell'Imperatrice Maria Teresa
d'Austria.
Monumenti e luoghi d'interesse:
Piazza Unità d'Italia
Palazzo del Municipio
Canal Grande
Cattedrale di San Giusto
Tempio serbo-ortodosso della Santissima Trinità e di San
Spiridione
Palazzi: x
Palazzo delle Poste (1890-1894)
Palazzo Leo (1745)
Palazzo del Municipio (1875)
Ospedale militare (1863)
Palazzo Modello (1870)
Palazzo Carciotti (1798)
Palazzo Marenzi (1650)
Palazzo Vivante
Palazzo del Tergesteo (1840-1842)
Palazzo del Lloyd (1880-1883)
Palazzo del Governo (1904)
Stazione Marittima (1930)
Arsenale del Lloyd (1853)
Palazzo Aedes
Palazzo Gopcevich
Palazzo Bartoli
Castelli:
Castello di Miramare (1856-1860)
Castello di San Giusto (dal 1368 al 1630)
Siti archeologici:
Basilica Forense (II secolo d.C.)
Castelliere - Cattinara
Acquedotto romano - Val Rosandra
Foro romano - San Giusto
Resti templi romani ad Atena e a Giove - San Giusto
Teatro romano (I secolo a.C.)
Torre difensiva mura romane (adiacenze scalinata S. M. Maggiore)
Resti abitazioni romane (comprensorio Cittavecchia)
Arco di Riccardo (33 a.C.)
Antiquarium di via Donota
Antiquarium di Borgo San Sergio
Basilica Paleocristiana
Tor Cucherna
Androne di Trieste:
Aldraga (androna)
Barriera Vecchia (androna)
Campo Marzio (androna)
Cavana (androna di)
Cherso (androna)
Colombo Cristoforo (androna)
Coppa (androna dei)
Corte (androna della)
D'Este Almerico (androna)
Ferriera (androna)
Fontanella (androna)
Fornace (androna della)
Grigioni (androna dei)
Naldini fra' Paolo (androna)
Olio (androna dell')
Olmo (androna dell')
Orti (androna degli)
Pane (androna del)
Pergola (androna della)
Pozzo (androna del)
Rena (androna di)
Riparata (androna)
Romagna (androna di)
Cilino (androna)
Eufemia (androna)
Fortunato (androna)
Lorenzo (androna)
Saverio (androna)
Sebastiano (androna)
Silvestro (androna)
Tecla (androna)
Sporcavilla (androna)
Torchio (androna del)
Torre (androna della)
Larghi di Trieste:
Aiaccio (largo)
Augustani (largo degli)
Barriera Vecchia (largo della)
Battaglia Raffaello (largo)
Bertolini (largo)
Canal Giulio Ascanio (largo)
Città di Santos (largo)
Corsica (largo)
Giardino (largo)
Granatieri (largo dei)
Hohenlohe (largo)
Irneri Ugo (largo)
Martiri della Risiera (largo)
Mioni Ugo (largo)
Niccolini Giambattista (largo)
Osoppo (largo)
Panfili Odorico (largo)
Papa Giovanni XXIII (largo)
Pestalozzi (largo del)
Petazzi (largo)
Piave (largo)
Pitteri Riccardo (largo)
Politi Odorico (largo)
Promontorio (largo del)
Riborgo (largo di)
Roiano (largo a)
Tommaso (largo)
Santorio Santorio (largo)
Sonnino Sidney Giorgio (largo)
Sottomonte (largo)
Piazze di Trieste:
Piazza Barbacan
Piazza Benco (già Santa Caterina)
Piazza Cavana
Piazza Cucherna (già del Ss Crocefisso)
Piazza Dalmazia (già della Caserma; del Lavatoio)
Piazza dei Cordaroli
Piazza del Teatro Verdi (già Maria Teresa)
Piazza della Borsa
Piazza della Libertà (già del Macello Vecchio; della Stazione)
Piazza della Repubblica (già Gadolla)
Piazza della Valle
Piazza della Zonta
Piazza delle Pignate
Piazza delle Scuole israelitiche
Piazza di Riccardo
Piazza di San Giacomo
Piazza Donota
Piazza Foraggi (già la Nuova)
Piazza Garibaldi (già della Barriera Vecchia; Stranga)
Piazza Goldoni (già della Legna; San Lazzaro)
Piazza Hortis (già Luetzen; Lipsia; degli Studi)
Piazza Oberdan
Piazza Piccola (detta anche parva)
Piazza Ponterosso
Piazza Rigutti
Piazza San Francesco
Piazza San Giovanni
Piazza Sant'Antonio Nuovo
Piazza Scorcola
Piazza Tommaseo (già dei Negozianti)
Piazza Trauner
Piazza Unità d'Italia (già Piazza San Pietro; Piazza Grande)
Piazza Vecchia (del Rosario)
Piazza Venezia (già Giuseppina; Ganza; Grumula)
Piazza Vittorio Veneto (già della Dogana; delle Poste)
Piazza Volontari Giuliani
Piazzetta San Lorenzo
Piazzetta Santa Lucia
Largo Pamfili (già della Chiesa Evangelica; dei Carradori)
Largo Papa Giovanni (già dei Ss Martiri)
Foro Ulpiano (già del Fieno)
Quartieri e frazioni di Trieste:
Barcola
Basovizza
Contovello
Grignano
Gropada
Miramare
Opicina
Padriciano
Prosecco
Santa Croce
Trebiciano
Barriera Nuova
Borgo Giuseppino
Borgo San Sergio
Borgo Teresiano
Cattinara
Chiadino
Chiarbola
Città Vecchia
Gretta
Roiano
Rozzol Melara
San Vito
Servola
Valmaura
Viali di Trieste:
Acquedotto (viale dell')
Cacciatore (viale al)
Campi Elisi (viale dei)
D'Annunzio Gabriele (viale)
Gessi Romolo (viale)
Gustincich (viale)
Ippodromo (viale dell')
Miramare (viale)
Puccini Giacomo (viale)
Ragazzi del 98 ?(viale)
Regina Elena (viale)
Regina Margherita (viale)
Rimembranza (viale della)
Sanzio Raffaello (viale)
Sonnino Sidney Giorgio (viale)
Tartini Giuseppe (viale)
Terza Armata (viale della)
XX settembre (viale)
Rioni Storici:
Banne
Barcola
Barriera Nuova
Barriera Vecchia
Basovizza
Borgo Franceschino
Borgo Giuseppino
Borgo San Sergio
Borgo Teresiano
Cattinara
Chiadino
Chiarbola
Città vecchia
Città nuova
Cologna
Contovello
Duino Aurisina
Guardiella
Gretta
Gropada
Longera
Muggia
Padriciano
Prosecco
Roiano
Rozzol
San Giacomo
San Giovanni
San Vito
Santa Croce
Santa Maria Maddalena
Scorcola
Servola
Trebiciano
Valmaura
Villa Opicina
Zaule
Rioni - Nuove Circoscrizioni:
Altipiano Ovest
Altipiano Est
Roiano – Gretta – Barcola – Cologna - Scorcola
Città Nuova - Barriera Nuova - San Vito - Città Vecchia
Barriera Vecchia - S. Giacomo
S. Giovanni – Chiadino - Rozzol
Servola – Chiarbola – Valmaura - Borgo S. Sergio
Luoghi di culto:
Cattedrale di San Giusto (1304)
Chiesa serbo-ortodossa della Santissima Trinità e di San
Spiridione (1869)
Chiesa Beata Vergine del Soccorso (1200)
Chiesa Beata Vergine del Rosario (1631)
Chiesa di San Nicolò dei Greci (1787)
Tempio ebraico - Sinagoga (1912)
Chiesa di Santa Maria Maggiore (1682)
Chiesa di Sant'Antonio Taumaturgo (1842)
Chiesa di Sant'Apollinare (1857), con gli affreschi di Pompeo
Randi
Chiesa evangelica luterana di Confessione Augustana 1870
Basilica di San Silvestro, luogo di culto delle comunità
elvetica e valdese (XI secolo)
Chiesa evangelica Metodista
Chiesa anglicana di Cristo (1829)
Altri luoghi d'interesse:
Piazza Unità d'Italia
Piazza della Borsa
Canal Grande
Lanterna (1833)
Faro della Vittoria (1927)
Caffè San Marco, locale storico ritrovo di molti celebri
intellettuali europei.
Gallerie antiaeree Kleine Berlin
Trenovia di Opicina (Tram de Opcina) storica tranvia inaugurata
nel 1902.
Parco della Rimembranza sul colle di San Giusto
Cimitero austro-ungarico
Borgo Teresiano
Monumenti e giardini:
Alice (vedetta)
Asburgo Ferdinando Massimiliano d'
(monumento)
Barcola (giardino di)
Caduti (monumento ai)
Capitano (giardino del)
Continenti (fontana dei)
Dedizione di Trieste all'Austria (monumento)
Fabio Severo (monumento equestre)
Garibaldi (monumento a)
Giardino del Capitano
Giardino Pubblico
Giovanin de Ponterosso (fontana del)
Leopoldo I (statua)
Miramar (parco di)
Nettuno (fontana al)
Opicina (obelisco di)
Opicina (vedetta di)
Ortensia (vedetta)
Pezze (fontana delle)
Rossi (monumento)
San Floriano (statua di)
San Giovanni Nepomuceno (statua di)
San Niceforo (fontana)
San Sergio (statua di)
Tartini Giuseppe (monumento a)
Tommasini Muzio de (giardino pubblico)
Traiana (colonna)
Tritoni (fontana dei)
Verdi Giuseppe (monumento a)
Winckelmann Giovanni Gioacchino (cenotafio a)
Zinzendorf (stele di)
Zonta (fontana della)
Fra la metà del XVIII e gli inizi del XX secolo Trieste
conobbe un'epoca caratterizzata da un notevole sviluppo
economico accompagnato da una crescita demografica molto
sostenuta, che permise alla città di passare da alcune migliaia
di residenti del periodo 1730-1740 ai quasi 230.000 del 1910.
Con la fine della prima guerra mondiale e il congiungimento di
Trieste all'Italia, il capoluogo giuliano assisté a un
progressivo ristagno della propria popolazione a causa delle
mutate condizioni geopolitiche in cui si era venuto a trovare
alla fine della Grande guerra. Da principale emporio marittimo
dell'Impero austro-ungarico e fra i massimi del Mediterraneo, la
città e il suo porto iniziarono a declinare, passando ad
occupare una posizione sempre più periferica nell'allora Regno
d'Italia.
All'indomani della seconda guerra mondiale in città si verificò
un altro mutamento delle dinamiche demografiche che l'avevano
caratterizzata fino ad allora: l'esodo di molti italiani dalle
terre dell'Istria ebbe infatti come meta Trieste, che conobbe
ancora una volta un'impennata della popolazione residente, oltre
a profonde trasformazioni della propria composizione etnica e
del tessuto sociale urbano. In quegli stessi anni, e in
particolare a partire dal 1954, con la fine del TLT, oltre
20.000 triestini, spinti da motivazioni di natura economica e
sociale, ma anche di indole politica, scelsero l'emigrazione,
dirigendosi principalmente in Australia, Canada e Sudamerica.
Durante gli anni cinquanta e sessanta gli abitanti si mantennero
costantemente al di sopra delle 270.000 unità raggiungendo un
massimo di 283.000 nel 1968.
Da quel momento la città ha assistito a una progressiva
diminuzione della propria popolazione. Le condizioni
geo-politiche nuovamente mutate, la mancanza di un entroterra
ampio che le desse respiro e la chiusura di molte attività
economiche (come i cantieri navali San Marco e le birrerie
Dreher) hanno costretto ampi strati di popolazione a trasferirsi
altrove alla ricerca di lavoro. Ne è conseguito un decremento
della natalità e un progressivo invecchiamento della popolazione
residente con cali demografici che per lungo tempo hanno
raggiunto e superato le 2000 unità all'anno.
Nell'ultimo decennio il decremento demografico è stato meno
marcato che in precedenza, stabilizzando la popolazione
triestina intorno ai 210.000 abitanti. Tale fenomeno è dovuto ad
una ripresa della natalità e ad un nuovo e lento processo di
immigrazione in massima parte proveniente dall'Europa orientale.
La particolarità del territorio provinciale, che conta circa
240.000 abitanti ed è il più piccolo d'Italia, è nei fatti una
sorta di conurbazione e un discreto movimento di popolazione è
avvenuto negli ultimi anni dal Comune capoluogo verso i Comuni
limitrofi.
Nonostante la ripresa demografica cui abbiamo fatto cenno, la
città assieme a Genova, Bologna e Venezia, continua ad essere in
testa alle classifiche italiane per anzianità della popolazione.
Trieste è un
crocevia di culture e religioni, conseguenza sia della sua
posizione geografica di "frontiera" sia delle vicissitudini
storiche che ne hanno fatto un punto di incontro di molti
popoli; infatti quasi ogni etnia e ogni movimento religioso ha
un proprio luogo di culto. Nella città di Trieste attualmente
sono presenti accanto alla popolazione italiana, numerosi gruppi
etnici minoritari storici tra cui sloveni, croati, serbi, greci
e tedeschi e gruppi di recente insediamento tra i quali arabi,
rumeni, albanesi, cinesi, africani e sudamericani.
Nel vasto territorio comunale di Trieste, il cui contado si
spinge fino al confine con la Slovenia, si incontrano altresì
località dell'altopiano carsico con consistenti comunità di
lingua e cultura slovena. Il gruppo linguistico sloveno viene
tutelato da apposite normative e contributi della Repubblica
Italiana permettendogli di disporre di una propria rete
scolastica, di proprie organizzazioni culturali e sportive e di
propri movimenti politici. La comunità slovena era stimata, nel
1971, in circa il 5,7% della popolazione del comune.
Fino alla prima guerra mondiale la comunità di lingua tedesca
superava il 5% della popolazione del comune, poi si ridusse
drasticamente. La comunità slovena, presente nella città fin dal
Medioevo, raggiungeva il 25% della popolazione del comune
(secondo il discusso censimento austriaco del 1910). Durante il
ventennio fascista molti sloveni abbandonarono la città a causa
di una legislazione linguistica particolarmente iniqua nei loro
confronti e di una politica di italianizzazione forzosa.
Prima della seconda guerra mondiale e della conseguente
occupazione nazista, inoltre, esisteva anche una florida
comunità ebraica (nel 1931 i residenti di religione ebraica
erano 4.671, di cui 3.234 aventi la cittadinanza italiana).
Questa si è progressivamente ridotta e attualmente conta circa
700 membri.
Al 31 dicembre 2010 la popolazione di nazionalità estera residente a Trieste era costituita da 18.257 persone (8.9 per cento delle popolazione)
Trieste era sede, fin dal 1877, di una reputata Scuola Superiore di Commercio. Nel 1924 la città si dotò di un'Università, che nei decenni successivi acquistò un notevole prestigio e che ospita da tempo numerose organizzazioni scientifiche internazionali e il principale parco scientifico italiano. Trieste infatti è nota come Città della scienza e accoglie una comunità scientifica ed universitaria molto conosciuta e rinomata all'estero che richiama ogni anno migliaia di studenti da tutto il mondo e di tutte le culture. Da notare in campo scientifico sono il sincrotrone ELETTRA all'Area Science Park, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) ed il Centro Internazionale di Fisica Teorica.
Trieste accoglie 32 musei fra i quali troviamo il "Museo Revoltella - Galleria d'arte moderna", i "Civici musei di storia ed arte", una rete ("museo multiplo") di undici istituzioni museali triestine (Museo di storia ed arte e orto lapidario", Museo del Castello e Armeria", Lapidario tergestino, Museo d'arte orientale, Museo teatrale "Carlo Schmidl", Museo di guerra per la pace "Diego de Henriquez" Museo della Risiera di San Sabba, Museo di storia patria, Museo Morpurgo de Nilma, Museo Sartorio, Museo del Risorgimento e Sacrario Oberdan e Museo postale e telegrafico della Mitteleuropa (in collaborazione con le Poste italiane) e i "Civici musei scientifici", costituiti da quattro istituzioni (Museo civico di storia naturale, Acquario marino, Museo del mare e Orto botanico). Altri tre musei fanno parte del "Servizio bibliotecario urbano" (Museo Sveviano, Museo petrarchesco piccolomineo e Museo Joyce Museum), a cui si aggiungono due biblioteche (Biblioteca civica "Attilio Hortis" e Biblioteca comunale del popolo "Pier Antonio Quarantotti Gambini", l'Archivio diplomatico e l'Archivio storico).
Lo Stadio Nereo Rocco, inaugurato nel 1992, ospita infine una serie di opere d'arte contemporanea, vincitrici di un apposito concorso (Nike, di Paolo Borghi primo classificato, ed opere di Nino Perizi, Marino Cassetti e Franco Chersicola, Livio Schiozzi, Claudio Sivini, Carlo Ciussi, Luciano Del Zotto, Gianni Borta, Enzo Mari e Francesco Scarpabolla. Per il "Polo natatorio" Davide Rivalta ha scolpito l'Ippopotamo in equilibrio sulla sfera.
Musei artistici:
Civico Museo di storia naturale, inaugurato nel 1846 da
un'associazione privata (la "Società di amici della scienza naturale")
come "Gabinetto zoologico-zootomico", venne donato alla città nel 1852 e
si trasferì nella sede attuale con il nome di "Civico museo Ferdinando
Massimiliano". Comprende una sezione botanica, una sezione zoologica,
una sezione paleontologica e una mineralogica e svolge attività
didattica e di ricerca.
Civico Acquario Marino, inaugurato nel 1933 ed ospitato nell'ex
"Peschiera Centrale", edificata nel 1913 in stile liberty
dall'architetto Giorgio Polli. Ospita esemplari della fauna marina
adriatica in un sistema di vasche con acqua prelevata direttamente dal
mare.
Civico Museo del mare, inaugurato nel 1904 come "Museo della pesca"
dalla "Società di pesca e piscicultura marina". A questo si aggiunsero
materiali provenienti dall'Istituto nautico "Tomaso di Savoia Duca di
Genova" di Trieste, con la trasformazione in "Esposizione marina
permanente", affidato alla "Società adriatica di scienze naturali". Nel
1968 divenne il museo attuale con la nuova sede allestita
dall'architetto Umberto Nordio. Ospita i materiali sulla storia della
marineria triestina.
Orto Botanico, fondato nel 1842 dal "Gremio farmaceutico", a cui seguì
nel 1861 un giardino per le specie spontanee dell'ambiente carsico. Nel
1903 ricevette il nome attuale.
Musei letterari
Museo Joyce Museum, nato nel 2004 dalla collaborazione tra Comune e
Università, come centro di documentazione e studio di James Joyce in
Italia.
Museo sveviano, ospitato a palazzo Biserini presso la Biblioteca civica,
centro di documentazione e di studio su Italo Svevo (pseudonimo
dell'industriale triestino Ettore Schmitz).
Museo petrarchesco piccolomineo, aperto nel 2003 per l'esposizione delle
opere di Francesco Petrarca ed Enea Silvio Piccolomini conservate nella
Biblioteca Hortis.
Dimore storiche
Civico museo Sartorio, ospitato in una villa settecentesca,
ristrutturata nell'Ottocento e appartenente alla famiglia Sartorio.
Conserva alcuni ambienti con arredi originali e diverse collezioni
donate alla città, il Trittico di Santa Chiara, opera di Paolo e Marco
Veneziano del 1328 e disegni di Giambattista Tiepolo.
Civico Museo Morpurgo de Nilma, ospitato nell'appartamento ottocentesco
dei banchieri Morpurgo, con gli arredi originali, donato dalla famiglia
al Comune nel 1943.
Altri Musei
Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata
Museo della Bora
Museo della comunità ebraica
Museo della Fondazione Giuseppe Scaramangà di Altomonte
Galleria Nazionale d'Arte Antica
Museo Nazionale dell'Antartide
Museo ferroviario
Museo etnografico di Servola
Museo speleologico "Speleovivarium"
Museo della Farmacia "Picciola"
Museo Commerciale
Science Centre Immaginario Scientifico (Grignano)
Antiquarium di Borgo San Sergio
Donazione Sambo
Teatro Rossetti Stabile di Trieste
Letteratura
L'ambiente culturale mitteleuropeo e la particolare storia di
Trieste hanno favorito fin dall'Ottocento l'affermazione di scrittori
triestini e l'arrivo di importanti autori stranieri che nella Città
vissero a lungo. L'elenco di sotto comprende i più importanti scrittori
nativi di Trieste e altri scrittori celebri che vissero e scrissero le
loro maggiori opere nel capoluogo giuliano.
Scrittori di lingua italiana:
Francesco Burdin
Carolus Cergoly
Mauro Covacich
Diego De Castro
Piero Dorfles
Marcello Labor
Giuseppe O. Longo
Claudio Magris
Bruno Maier
Stelio Mattioni
Elody Oblath
Pier Antonio Quarantotti Gambini
Renzo Rosso
Pino Roveredo
Paolo Rumiz
Umberto Saba
Bruno Giordano Sanzin
Scipio Slataper
Giani Stuparich
Italo Svevo
Susanna Tamaro
Fulvio Tomizza
Bruno Vasari
Franco Vegliani
Giorgio Voghera
Guido Voghera
Scrittori dialettali:
Lino Carpinteri
Mariano Faraguna
Virgilio Giotti (premiato nel 1957 dall'Accademia dei Lincei)
Scrittori di lingua tedesca:
Theodor Däubler
Julius Kugy
Robert Hamerling
Veit Heinichen
Rainer Maria Rilke
Günter Schatzdorfer
Scrittori di lingua inglese:
Richard Francis Burton (nel XIX secolo, in epoca asburgica, visse i
suoi ultimi 18 anni di vita a Trieste)
James Joyce
Jan Morris (lasciò Trieste nel 1954, subito dopo la ricongiunzione della
città all'Italia)
Scrittori di lingua slovena:
Vladimir Bartol
Dušan Jelinčič
France Bevk
Miroslav Košuta
Jovan Vesel Koseski
Marko Kravos
Boris Pahor
Alojz Rebula
Igor Škamperle
Scrittori di lingua francese:
Vitomir Ahtik
Françoise Bergère
Stendhal, consule di Francia a Trieste in 1831
Charles Nodier (1780 – 1844)
Paul Morand (1888-1976)
Catherine Néal Phleng
Marie Bonaparte, castello di Duino
Dedicato al famoso allenatore giuliano, lo stadio Nereo Rocco sorge nel quartiere di Valmaura, alla periferia sud della città, vicino al vecchio stadio Giuseppe Grezar. Ospita la sede della stessa società nonché degli uffici provinciali del CONI e il dipartimento di medicina sportiva; in talune occasioni è stato teatro di importanti concerti musicali, tra cui Vasco Rossi e Zucchero.La necessità di sostituire il vecchio stadio, dedicato a Giuseppe Grezar, inaugurato come "Littorio" negli anni trenta, portò alla costruzione di un nuovo impianto nel sito del vecchio macello comunale, alle spalle dello stadio precedente. Il progetto venne affidato allo studio di tre architetti triestini: Dario Tognon e Luciano e Carlo Celli. Lo stadio venne inaugurato il 18 ottobre 1992 con una partita di Serie C1 Triestina/Vis Pesaro.
_________________
Approfondimenti:
L'ambiente naturale di quella che sarebbe divenuta la città di Trieste comprende due unità geografiche distinte: l'altopiano carsico, costituito prevalentemente da calcari, e il golfo, formato da colline arenacee e pianure alluvionali. Il Carso, noto anche come Altopiano Carsico, si estende dai piedi delle Alpi Giulie al mare Adriatico, (in provincia di Gorizia e di Trieste), e attraverso la Slovenia occidentale e l'Istria settentrionale, prosegue fino al massiccio delle Alpi Bebie (Velebit) all'estremo nord-ovest della Croazia. Caratteristica delle rocce calcaree è la loro solubilità all'acido carbonico contenuto nella pioggia, che con il trascorrere del tempo le modella in varie forme (fenomeno del carsismo). Il Carso è ricco di migliaia di grotte di varie dimensioni, che da sempre hanno offerto naturale riparo ad uomini e animali, delle quali le più note sono la Grotta Gigante, le grotte di San Canziano e quelle di Postumia. Il calcare è una roccia sedimentaria creatasi sul fondo marino dall'accumulo di organismi quali piante, molluschi, coralli, crostacei...
La formazione del Carso dovrebbe risalire all'incirca alla fine dell'era Mesozoica, al Cretaceo (circa 100 milioni di anni fa), quando in seguito alle spinte orogenetiche, le masse rocciose subirono la deformazione tettonica e cominciarono ad emergere le Alpi Carniche, le Giulie e le Dinariche. Il Carso, ancora sotto la superficie del mare, inizò a piegarsi, facendo affiorare delle scogliere dalle cui pieghe cadevano nel mare i detriti, che sedimentandosi diedero origine alle arenarie e alle marne.
Con il trascorrere del tempo (milioni di anni) il Carso accentuò il suo
corrugamento, emergendo dal mare. Lo strato di arenaria, per effetto
della frantumazione, andò a formare pieghe disordinate, doline e
colline; la dorsale carsica, dalla soglia di Basovizza fino a Duino,
venne percorsa da un grosso corso d'acqua, il Paleotimavo, il quale
scorrendo creò le dorsali collinose.
Per effetto della solubilità del carbonato di calcio sotto l'azione
degli agenti atmosferici, ebbero inizio quei processi di modellamento che conferirono
al territorio un aspetto molto suggestivo.
Le cave di Aurisina presentano una notevole varietà di materiali che hanno tutti
la stessa definzione: "brecciola calcarea" di origine organogena, formatisi
proprio nel Cretacico superiore. E' durante questo periodo che iniziò il rapido
sviluppo delle Angiosperme. Le ammoniti svilupparono forme a spirale svolta o a
guscio quasi completamente diritto (eteromorfe) e nei mari poco profondi si
diversificarono le rudiste, un particolare gruppo di lamellibranchi nei quali
una valva assumeva forma conica rovesciata, fissata al substrato, mentre l'altra
formava una sorta di opercolo.
La fine del Cretacico superiore è caratterizzata da un'importante estinzione di
massa, avvenuta 65 milioni di anni fa, famosa perché associata all'estinzione
dei dinosauri.
Repen Classico chiaro. Estrazione: San Pelagio, Monrupino, Rupingrande
Aurisina Fiorita o Aurisina Brecciata. Estrazione: Aurisina
Dal punto di vista chimico, la base di tutti i marmi di Aurisina è il carbonato
di calcio, mentre il carbonato di magnesio ed il residuo insolubile, quando ci
sono, si trovano soltanto in traccia. Dal punto di vista dell'aspetto, i vari
tipi di pietra di Aurisina si distinguono per la pezzatura delle inclusioni di
fossili che sono più o meno sminuzzati; solo l'"Aurisina fiorita" si differenzia
dalle altre, per il fatto che i fossili sono di notevoli dimensioni.
Già all'epoca romana, dalla fine del I secolo avanti Cristo, le cave di pietra
di Aurisina fornivano materiale da costruzione e decoro per Aquileia. Le pietre
estratte venivano calate per mezzo di giganteschi scivoli, costituiti da lastre
di piombo, lungo il ciglione carsico, e giungevano a destinazione via mare.
Ireneo della Croce scrive: “ […] non lungi dalle cave si vedono ancor oggi i
vestigi di due strade, addimandate comunemente “Piombino”, perchè tutta coperte
da lastre di piombo grosse, oltre due palmi dalla sommità del monte, sino alla
riva del mare, servivano per trasportare le colonne ed altre machine levate
dalle suddette cave e caricarle nelle navi”.
Il Carso presenta un clima temperato-marittimo, con afflusso di aria continentale proveniente dalla catena delle Alpi Giulie o attraverso la sella di Prevallo, che può produrre escursioni tra i valori minimi e massimi, nelle giornate estive, fino a 20°C. Nelle doline e sulle colline, si evidenziano dei topoclimi con caratteristiche subalpine, nei pendii che digradano al mare il clima è temperato marino.
La città di Trieste secondo la classificazione di Köppen rientra nel tipo mediterraneo con un clima piuttosto mite d'inverno e caldo, raramente torrido, d'estate. Per la vicinanza dei rilievi, brevi piogge possono presentarsi durante tutto l'anno, mentre durante i mesi estivi le precipitazioni sono rare e prevalentemente a carattere temporalesco. La temperatura media rilevata nel corso dell'anno è di 25°C nel mese più caldo (luglio) e attorno ai 6°C nel mese più freddo (gennaio) che raramente, almeno sulla costa, scende al di sotto dello zero. Scarse sono anche, le giornate con neve, nebbia o grandine, fatta eccezione per l'altipiano carsico che tende ad innevarsi con maggiore facilità. Il clima generalmente mite di Trieste muta in presenza del suo caratteristico vento, la "Bora", che soffia per brevissimi periodi anche d'estate, e le cui raffiche nel periodo invernale aumentano notevolmente la percezione di freddo. In determinati periodi le raffiche della Bora possono essere gelide, facendo precipitare le temperature anche di parecchi gradi sotto lo zero. Particolarmente fredde e ventose sono state le annate: 1929; 1956; 1976; 1985; 1991; 1996; 2003; 2006; 2008.
La flora carsica, risultato di alterne vicende climatiche verificatesi nel corso dell'era quaternaria, iniziata oltre 2 milioni di anni fa e conclusosi circa 12.000 anni fa, attraversando alcuni periodi glaciali, è molto ricca e varia di specie (oltre 1500).
Possiamo suddividerla in tre gruppi:
la flora Illirica, con il frassino, la roverella e il carpino;
la flora Medioeuropea, con la quercia, l'acero, l'olmo e il carpino betulla;
la flora Mediterranea coi il pino greco, la ginestra, il leccio, l'olivo selvatico, la salvia e l'euforbia.
Tra le piante presenti sul territorio, le principali sono:
Abbracciabosco, Abete bianco, Abete rosso, Abrotano di campo, Abrotano nostrano, Acacia, Acanto da siepe, Accatengi, Achillea nobile, Achillea sidente, Adianto, Adianto nero, Adianto nero, Adonide, Adonide fior d'Adone, Agave, Aglio ursino, Agno casto, Agrifoglio, Agrimonia, Ailanto, Ailanto del Giappone, Aino, Albatro, Albera bianca, Alchechengi, Alchimilla, Alisma, Alliaria, Alliaria comune, Alloro, Alno, Alno nero, Altea comune, Amarella Ammi, Anagallide, Ancusa, Anemolo bianco, Anemolo dei boschi, Anemone bianca, Anemone dei boschi, Anemone epatica, Anemone fegatella, Anemone gialla, Anemone montana, Anemone pulsatilla, Anemone stella, Aneto puzzolente, Angelica, Angelica selvatica, Antana, Aquifoglio, Arbuto, Aristolochia rotonda, Aro, Artemisia di campo, Artemisia litorale, Artemisia maschio, Asarabaccara, Asaro, Asfodelo bianco, Asfodelo montano, Asfodillo, Asparago, Asparago comune, Asperula, Asperula odorata, Asplenio adianto-nero, Asplenio tricomane, Assenzio, Assenzio comune, Assenzio delle siepi, Assenziolo, Assenzio maggiore, Assenzio marino, Assenzio romano, Assenzio selvatico, Assenzio vero, Avellana, Avellano Avena, Avena altissima, Avena comune, Avorniello, Avorniello, Avorniello d'Alpe, Avorno, Azarolo selvatico, Baccaro comune, Ballote, Barancio, Barba di capra, Barba di Giove, Bardana minore, Becco d'oca, Belladonna, Bellichina, Berberi, Berberio, Berretta da prete, Betulla, Betulla verrucosa Biada, Biancospino comune, Biancospino selvatico, Bidollo, Bismalva, Bocca di lupo, Borragine comune, Borrana, Bosso comune, Bossolo, Brentoli, Brionia, Brionia comune, Brughiera, Brugo, Buglossa, Buglossa azzurra, Bugola, Bugola silvana, Caglio odoroso, Calaminta, Calcatreppola ametistina, Calendula, Calenzola, Callandria, Calta, Calta palustre, Camepizio, Camomilla fetida, Camomilla mezzana, Canapa acquatica, Canapaccio, Canapa d'acqua, Canapicchio, Capelvenere, Capelvenere di Montpellier, Capo bianco, Caprifico, Caprifoglio, Caprifoglio peloso, Carciofo grasso, Cardo da panni, Cardo dei lanaioli, Cardo di Venere, Cardo scardaccione, Carpinella, Carpino, Carpino bianco, Carpino comune, Carpino nero, Carpino orientale, Castagno, Castagno comune, Castagno d'India, Castalda, Cataria, Cavallini, Cecchia, Cedracca, Cedracca comune, Cedronella, Centinodia bistorta, Centocchio dei campi, Cerasiola, Ceraso, Cerfoglio, Cerfoglio comune, Cetracca, Chichingero, Ciclamino, Ciclamino delle Alpi, Cicuta, Cicuta aglina, Cicuta minore, Ciliegia di volpe, Ciliegio, Ciliegio selvatico, Cima dei pastori, Cimiciotta comune, Cimiciotto, Ciondolino, Cipolla, Cipressini grandi, Cipresso, Cipresso comune, Citiso alpino, Citiso laburno, Citraggine, Citronella, Cocomero, Coda cavallina, Colchico, Colchico autunnale, Comino nostrale, Concordia, Consolida, Corbezzolo, Cordiali, Corgnolo, Corniolo, Coronilla cangiante, Coronilla ginestrina, Correggiola bistorta, Cotogno, Cotula fetida, Crespino, Crespino comune, Damigella, Delcio, Dente canino, Diaconella, Dittamo, Edera spinosa, Edera terrestre, Efemero, Egopodio, Elabro nero, Elce, Elcio, Elleboro verde, Ellera terragnola, Equiseto, Equiseto comune, Equiseto dei campi, Erba aglina, Erba alliaria, Erba amara, Erba angelica, Erba astrologa, Erba bellica, Erba biscia, Erba bozzolina, Erba codeina, Erba da calli, Erba d'Adamo, Erba da piaghe, Erba della volpe, Erba di S Lorenzo, Erba dorata, Erba fontanina, Erba gatta, Erba giardina, Erba ginestrina, Erba limona, Erba limona comune, Erba limono, Erba lupa, Erba medica selvatica, Erba novella, Erba perla azzurra, Erba porraia, Erba quattrina, Erba regina, Erba renella, Erba rossa ventaglina, Erba ruggine, Erba rugginina, Erba sacra, Erba stella, Erba trinità, Erba vescicaria, Erica, Erica carnicina, Erica minore, Eringio ametistino, Eufrasia, Eufrasia stretta, Eupatoria, Eupatorio, Faggio, Faggio comune, Falsa borragine, Falsa gramigna, Falsa melissa, Falsa salsapariglia, Falso capelvenere, Fanciullacce, Farferugine, Farnia, Fegatella, Felce maschio, Fescera Fico, Fico comune, Filicicchia, Filo di Venere, Finocchio bastardo, Fiordaliso stoppione, Fiordi stecco, Fiore del freddo, Fiorrancio, Fior stella, Framboa, Frangola comune, Frassinella, Frassino, Frassino da manna, Frumento rampicante, Fumaria bulbosa, Fumaria ditaruola, Fumosterno bulboso, Fusaggine, Fusaria, Fusaria appennina, Fusarina, Fusaro, Gaggia, Garofano di Spagna, Gattaia comune, Gattice, Gelso, Gelso comune, Gelso nero, Gelsomino, Gelsomino bianco, Gelsomino comune, Geranio dei boschi, Geranio malvaccino, Geranio rosso, Geranio sanguigno, Gettaione, Giardina silvestre, Gichero, Gigaro chiaro, Gigaro scuro, Giglio caprino, Giglio crestato, Giglio delle convalli, Giglione, Ginco, Ginepro,Ginepro comune, Ginkgo, Giracapo, Gittaione, Gittaione comune, Goccia di sangue, Gramaccia, Gramiccia, Gramigna comune, Grecchia, Grisettina selvatica, Guardacasa, Iberide rosea, Ippocastano, Ischia, Ischio, Isopo, Issopo, Iva artritica, Iva comune, Iva ginevrina, Jacea maggiore, Laborno, Laburno, Laburno alpino, Lagano, Lampone, Lantana, Larice, Larice comune, Lauro, Lazzeruolo selvatico, Leccio, Legabosco, Lentaggine, Lezza, Ligabosco, Ligustro, Limonello, Linajola, Linajola comune, Linaria, Lingua di bue, Lingua rada, Lunaria selvatica, Lupata, Madreselva, Madreselva pelosa, Maggiociondolo, Maggiociondolo di mon, Maggiopendolo, Malva, Malvaccini, Malvarosa, Malva selvatica, Malva silvestre, Malvone Malvone, Manina rosea, Margherita, Margheritina, Marrobio fetido, Marrobio nero, Marrobio selvatico, Marrubio fetido, Marruca bianca, Mazzettone, Mela cotogna, Melanio, Melissa, Melissa vera, Melo, Melo cotogno, Melograno, Melo selvatico, Menta bastarda, Menta dei gatti, Mentastro, Mentuccia, Mentuccia maggiore, Mestolaccia, Mezereo, Miglia sole maggiore, Millefoglio nobile, Mirto, Mirto comune, Morandola, More di pruno, More di spino, Moro, Moro bianco, Moro nero, Mortella, Mostola, Mughetto, Narciso, Narciso stellare, Nepetella, Nespolo, Nespolo volgare, Nigella, Nocciolo, Noce comune, Olivella, Olivello, Olivo, Olmaria, Olmaria comune, Olmo, Olmo comune, Olmo di montagna, Olmo minore, Olmo montano, Ontano, Ontano comune, Ontano nero, Orchide a foglie larghe, Orchide garofanata, Orchide macchiata, Orchide maschia, Orchide minore, Orchide palmata, Origano, Orniello, Orno, Ortica pelosa, Osmarino, Paglietta, Paleo, Paleo odoroso, Pallone di maggio, Pan di cuculo, Pan di serpe, Panporcino, Pasquetta, Peccio, Pepe falso, Pero, Pero comune, Pero cotogno, Pezzo, Piantaggine acquatica, Piantaggine d'acqua, Piede d'asino, Piè vitellino, Pino ad ombrello, Pinocchio, Pino da pinoli, Pino di Scozia, Pino domestico, Pino rosso, Pino selvatico, Pino silvestre, Pioppo, Pioppo albaro, Pioppo bianco, Pioppo nero, Pioppo tremulo, Pitta, Podagraria, Poligono bistorta, Politrico, Pomo granato, Pomola del diavolo, Porraccio, Porraccio bianco, Porretta, Porro, Pratolina, Primavera, Primaverina, Prugnolo, Prugnolo selvatico, Prugnolo spinoso, Prugno selvatico, Pruno agazzino, Pulsatilla, Pulsatilla montana, Quercia comune, Quercia leccio, Quercia rovere, Radice Vergine, Ranno, Ranno catartico, Ranuncolo bianco, Ranuncolo muschiato, Regina dei prati, Renella, Ribes, Ribes comune, Ribes rosso, Rindomolo, Rizomolo, Rizzimolo, Robinia, Robbia selvatica, Rosa canina, Rosa cinese, Rosa di macchia, Rosa di maggio, Rosa mistica, Rosa rossa, Rosa selvatica, Rosa serpeggiante, Rosmarino, Rosone, Rossetto, Rovere, Rovo, Rovo cervone, Rovo di macchia, Rovo ideo, Ruta selvatica, Sagina cannaiola Salep, Salice, Salice bianco, Salice comune, Salice da vimini, Salice di Babilonia, Salice piangente, Salice rosso, Salisburia, Salsa paesana, Salsapariglia, Salsapariglia nostrana, Salsa siciliana, Salvia, Salvia medicinale, Sambuchella, Sambuco, Sambuco acquatico, Sambuco comune, Sambuco rosso, Sambuco nero, Sangue di Cristo, Sanguigna, Sanguinaria, Sanguinella, Sanguinello, Santonica, Santoreggia, Santoreggia montana, Scapigliate, Scardaccione selvatico, Scarsapepe selvatico, Scopa piccola, Scopetti, Scopina, Sedano, Sedano comune, Semprevivo, Semprevivo dei muri, Semprevivo dei tetti, Semprevivo, Semprevivo maggiore, Sena falsa, Sena nostrale, Senna dei poveri, Sigillo della Madonna, Smarino, Sorbo, Sorbo degli uccellatori, Sorbo domestico, Sorbolo, Sorbo selvatico, Sorcelli, Sorrestella, Spaccapietre, Sparangio, Spina acida, Spina barbara, Spino bianco, Spino cervino, Spino cervino minore, Spino comune, Spino nero, Stellina odorosa, Stracciabrache, Stracciacappe, Strazzapolli, Strozza lupo, Strozza preti, Suorvo, Susino di macchia, Susino selvatico, Tamaro, Tasso, Tasso comune, Tiglio, Tiglio d'estate, Tiglio maremmano, Tiglio nostrale, Tiglio riccio, Tiglio selvatico, Timo falso, Timo maggiore, Tlaspi a mazzetto, Tremolina, Tremolo, Tribolo, Tricomane, Trifoglio della rena, Tuja americana, Tuja occidentale, Tuja orientale, Ulmaria, Usmarino, Uva di S Giovanni, Uva spina, Uva spinella, Uva tamina, Valeriana, Valeriana comune, Valeriana officinale, Vecciarini, Vedovina di teste bianche, Vegro, Veratro nero, Verga sanguigna, Vescicaria, Vetrice rossa, Viburno, Viburno lantana, Vimini, Viorna, Visnaga maggiore, Vite bianca, Vite del diavolo, Vite del serpente, Vite nera, Vite selvatica, Vitice, Viticella, Vivorna, Vulneraria, Vulneraria comune, Zabbara, Zafferano bastardo, Zafferano falso, Zafferano selvatico, Zammara, Zucca marina, Zucca matta, Zucca selvatica.
Con "Preistoria", termine coniato negli anni
trenta dell'Ottocento da Paul Tournal, fondatore della Commission Archeologique
e del museo di Narbonne, si intende convenzionalmente quel grande periodo che,
dalla prima comparsa dell'uomo sulla Terra, precede la storia documentata. Un
intervallo temporale, secondo una visione abbastanza condivisa, che va da circa
due milioni e mezzo di anni fa sino al 4.000 a.C. circa, periodo in cui avvenne
l'invenzione della scrittura.
Le prime testimonianze giunte a noi, intese quali manufatti e graffiti, sono
state datate all'incirca intorno al 30.000 a.C. (secondo altre fonti la
datazione dei reperti deve essere anticipata di molto).
Tradizionalmente, alla preistoria viene ascritta
l'età della pietra, ovvero quella fase dell'evoluzione umana non riferibile
tanto ad un periodo temporale specifico, quanto evolutivo, in cui si iniziarono
a costruire e usare utensili ricavati da legno, pietre, corno, ossa, conchiglie,
mentre alla successiva protostoria è attribuita la nascita della lavorazione dei
metalli, da cui prendono il nome le successive età del bronzo e del ferro.
L'età della pietra, in funzione delle tecniche di lavorazione dei materiali e
all'uso degli utensili, viene suddivisa in tre periodi: Paleolitico, Mesolitico
e Neolitico.
Il Paleolitico si estende all'incirca da 2.500.000 di anni fa fino al 10.000 a.C.; il Mesolitico dal 10.000 al 6.000 a.C.; il Neolitico dal 6.000 al 4.000 a.C.
Il termine Paleolitico (dal greco παλαιός palaios, "antico", e λίθος lithos, "pietra", ossia età "della pietra antica"), venne coniato dallo studioso John Lubbock nel 1865. Durante il Paleolitico avvennero una serie di glaciazioni, che prendono i nomi dai loro scopritori: glaciazione di Günz, glaciazione di Mindel, glaciazione di Riss e glaciazione di Würm. Durante queste epoche, i ghiacci si erano estesi su gran parte dell'Europa settentrionale e centrale, fin quasi sulle coste del Mediterraneo, provocando l'abbassamento del livello del mare di oltre 100 metri. Alla fine dell'ultima glaciazione, (da 15.000 a 10.000 anni fa), con il conseguente aumento delle temperature, i ghiacciai ripresero a sciogliersi alzando il livello dei mari. Successivamente all'ultima glaciazione, di Würm, si diffonde in Europa l'odierno Homo sapiens sapiens. Gruppi umani, prevalentemente nomadi o a permanenza periodica, con un'economia di raccolta, caccia e successivamente di pesca, le cui abitazioni erano inizialmente ripari naturali (anfratti e grotte), poi capanne costruite con arbusti e pelli di animali, si diffondono nel bacino mediterraneo.
Nell’Europa occidentale pascolavano grandi
branchi di renne, in quella orientale mammut e cavalli selvatici. Le condizioni
climatiche e ambientali dell’Italia erano parecchio diverse da quelle attuali:
grandi distese di boschi rendevano il clima fresco e umido, i ghiacciai alpini
erano molto più estesi e la nostra regione era ricoperta da una fitta
vegetazione alpina. Le terre emerse collegavano l’Italia alla penisola
balcanica, quasi fino all’altezza della Puglia.
Durante l'età paleolitica, l'uomo inizia ad utilizzare utensili in pietra - sono
di questo periodo le pitture rupestri ritrovate in grotte, soprattutto nella
Francia centrale e nella Spagna settentrionale, realizza sculture sbozzate in
piccole pietre, rappresentazioni del mondo visibile, forme create con l'intento
di riprodurre la realtà in cui esso viveva o per lasciare traccia della sua
esistenza.
Durante il Mesolitico compaiono progressivamente forme artistiche di maggior rilievo, come disegni o incisioni di animali (bisonti, cavalli), in cui viene impiegato il rosso, il nero, il marrone, reperti delle grotte di Lascaux in Francia e delle grotte di Altamira in Spagna.
Nel periodo detto Neolitico fa la sua comparsa la ceramica, localizzata prima nel Mediterraneo orientale, per poi svilupparsi verso l'Africa settentrionale, la Grecia, l'Italia, la penisola balcanica, la Francia meridionale e la Spagna.
La Preistoria nel territorio di Trieste
Del territorio dove ora sorge Trieste e il suo entroterra, della Venezia Giulia, si sa solo quello che ci raccontano i reperti fossili, ora conservati nei vari musei.
Il Museo di Storia
Naturale di Trieste, oltre allo scheletro fossile dell'Ursus Spelaeus che viveva
nelle grotte del Carso fino a qualche decina di migliaia di anni fa, (quasi 300
esemplari sono stati rinvenuti nella grotta Pocala di Aurisina), ospita
anche il dinosauro Antonio, ritrovato al Villaggio del Pescatore, zona "Baia
degli Uscocchi", nei
pressi dell'ex
cava (sito paleontologico visitabile, gestito dalla cooperativa
Gemina). A
fianco della cava si trova una stradina che conduce al luogo del ritrovamento.
Scoperto nel 1994, Antonio è il più grande e completo dinosauro ritrovato in Italia, appartenente agli "adrosauroidi", rettili vegetariani che vivevano in branco e che alla fine del Cretaceo popolarono diverse regioni della Terra, comprese le Americhe. La loro caratteristica principale era la forma del muso, appiattito e con un becco simile a quello di un cavallo o di un'anatra. Si tratta dello scheletro fossile meglio conservato mai ritrovato in Italia (completo al 95%): misura 4 metri di lunghezza e un metro e trenta di altezza, mano a tre dita, arti posteriori robusti adatti alla corsa. Databile a 70 milioni di anni fa, è attualmente il reperto animale più antico vissuto in queste zone.
Il Castello di San Giusto, dal 15 marzo al 3 giugno 2001, ha ospitato la mostra "I dinosauri nella regione adriatica", ottenendo un grande afflusso di visitatori. La mostra proponeva vari reperti del Villaggio del Pescatore: il già citato "Antonio", "Bruno" (un nuovo esemplare), le zampe anteriori di un adrosauro, parti di un dinosauro carnivoro, ossa di dinosauri di grandi dimensioni, tre coccodrilli; provenienti da Valle in Croazia: una vertebra di sauropode, un dente ed un artiglio di un piccolo dinosauro carnivoro, alcuni denti di coccodrillo; un grande blocco di roccia fossilifera e due denti di dinosauro da Kozina in Slovenia.
A quattordici anni di
distanza, nel marzo 2015, una mostra di dimensioni inferiori è stata allestita
alle Scuderie del Castello di Miramare: "Attenzione Dinosauri: Lavori in corso".
Organizzata dalla ditta triestina Zoic, in collaborazione con la Cooperativa
Gemina, è stato presentato il minuzioso lavoro di restauro, preparazione ed
assemblaggio delle ossa che viene svolto prima dell'esposizione definitiva in un
Museo.
Nello stesso giacimento di Antonio sono stati ritrovati fossili di dinosauri della stessa specie, un osso di dinosauro carnivoro, coccodrilli, resti di rettili volanti, pesci, gamberi, vegetali. Questo assieme di reperti configura l'habitat locale del periodo come una pianura costiera paludosa, conseguente a vaste terre emerse, con una ricca vegetazione dovuta ad un clima tropicale o sub-tropicale. Le rocce carsiche conservano tracce di numerosi eventi biologici e geologici, risalenti da 45 milioni di anni fa fino a 100 milioni di anni fa, con forme di vita, soprattutto molluschi e microfaune i quali confermano una formazione avvenuta in un ambiente marino tropicale.
Antichi abitanti della Venezia Giulia
Delle origini e della vita degli antichi abitanti della Venezia Giulia, sappiamo molto poco: la valle dell’Isonzo fu abitata fin dal Paleolitico Medio (100.000 - 40.000 anni fa) con tracce umane anche nelle caverne della valle del Vipacco. I reperti archeologici di maggior rilievo risalgono all’epoca del Neolitico (8.000-3.000 anni fa) e a quelli dell’età del bronzo (circa 3.000-2.000 a.C.), quando, finita l’ultima grande glaciazione il clima si fece più mite e i vari gruppi umani abbandonarono la vita nomade per vivere nei primi villaggi, dedicandosi all’allevamento di animali e alla coltivazione della terra.
In Europa, compaiono i "dolmen", due grandi pietre verticali sulle quali viene appoggiata una orizzontalmente, e i "menhir", monoliti eretti singolarmente o in gruppi, con dimensioni che possono variare considerevolmente (fino a raggiungere i 30 metri di altezza), opere legate a culti primitivi. In Italia settentrionale si diffusero i villaggi su palafitte, in Sardegna, a partire dal terzo millennio a.C. sorgono i "nuraghi", costruzioni tronco-coniche a base circolare realizzate con pietre sovrapposte nelle pareti e a cerchi concentrici nelle volte a forma di cupola. Nelle zone di nostro interesse, che costituivano un punto di passaggio tra le aree montane del Carso, del Collio e la pianura veneto-friulana, si insediarono diversi popoli: Galli Carni, Protoilliri e Istri. Non mancano nemmeno tracce della cultura veneta, che da Este giunse fino a queste zone. Menzionati già da Erodoto, occuparono le nostre regioni tra il secondo e il primo millennio a.C; dediti al commercio, la loro civiltà raggiunse il massimo splendore tra il 500 e il 400 a.C., quando iniziarono le invasioni di alcune tribù di Celti, quelle dei Galli Carni. Testimonianze della civiltà dei Veneti si sono ritrovate nell’alta valle dell’Isonzo, a S. Lucia di Tolmino (ottomila tombe e i resti di un insediamento di capanne), a Caporetto e sull’altura di Santa Caterina sopra Nova Gorica, tutte collocate dagli studiosi all'età del ferro. Sempre secondo gli storici sembra che a quel tempo i Veneti confinassero al Timavo con gli Istri. Venivano eretti tumuli di pietra e i defunti trovavano collocazione in tombe, come quelle scoperte a Tolmino, ma anche sul monte Calvario e a San Pietro. Dopo il V secolo a.C., sorsero consistenti nuclei abitativi dai quali avranno poi origine alcune delle città attuali, primo tra tutti quello di Aquileia, in un’area dove erano presenti Veneti, Illiri e Celti.
I Galli Carni, popolazione celtica di origine danubiana, scesero tra il V e il IV secolo a.C. e dopo aver affrontato cruenti scontri con i Veneti e gli Istri, si insediarono nell’Isontino, nel Friuli e nel Veneto. Secondo Tito Livio e Plinio il Vecchio, avrebbero edificato una città fortificata non distante da Aquileia, poi distrutta dai romani.
Degli Istri, popolazione indoeuropea di indole
bellicosa, è documentata la presenza sul Carso già nel X secolo a.C.
Combatterono per la prima volta contro Roma nel 229 a.C. e successivamente,
sconfitti nella zona del Timavo, si rifugiarono a Nesazio, una città non lontana
dall’odierna Pola. Presa d'assedio nel 177, secondo quanto tramandato da Livio,
la città cadde dopo che i Romani ne distrussero l’acquedotto. Nonostante la
distruzione e sottomissione di varie città, gli Istri mantennero la loro
indipendenza ancora per qualche anno, fino al 27 a.C., quando tutti i territori
dall’Istria al Danubio furono trasformati in provincia romana e vennero
romanizzati.
Castelliere in Istria
Ad opera degli Istri, tra il XV e il III secolo a.C., nella zona del Carso e dell'Istria, fanno la loro comparsa i primi "castellieri". Si tratta di piccoli insediamenti, edificati in posizioni elevate e caratterizzati da una o più cinte di rocce sedimentarie di varie misure, spesso realizzate a secco o saldate con terra e sterpaglia. Talora i castellieri venivano maggiormente fortificati con staccionate in legno, per migliorare la difesa del villaggio dove vivevano comunità dedite all’agricoltura, all’allevamento, alla caccia e alla pesca. Essi possono variare molto di dimensione, a partire dai 200 metri, fino a raggiungere il chilometro di circonferenza.
Il castelliere preistorico divenne l'"oppido"
romano (insediamenti cittadini fortificati)e sovente, con il trascorrere del
tempo, su di esso vennero innalzate fortificazioni medievali, chiese, villaggi o
città. Si trovano traccia di castellieri in tutta la Venezia Giulia e Friuli;
nella sola Istria ve ne sono almeno 500.
Ritenuti per secoli fortilizi romani, nel XIX secolo, ad opera dello storico e
scrittore Carlo De Franceschi (Moncalvo di Pisino 1809 - 1893), i castellieri
vennero restituiti quali sedi degli abitanti preistorici dell'Istria; allo
stesso De Franceschi spetta anche il merito di aver identificato la posizione di
Nesazio, capitale degli Istri.
Nel 1903, l'archeologo e paleontologo Carlo
Marchesetti (Trieste, 1850 – 1926), il quale aveva già fatto uno studio nel 1883
sul castelliere di Cattinara, pubblicava una monografia sui castellieri della
Venezia Giulia, classificandone un gran numero. Il Marchesetti fu direttore per
oltre quarant'anni del Civico Museo di Storia naturale di Trieste, e dal 1903
venne nominato anche direttore dell’Orto botanico, che successivamente annesso
al Museo di storia naturale, assunse grande prestigio scientifico.
Nel corso di una serie di campagne di scavo e di ricognizione, svolte tra il
1883 e il 1892, nell’Isontino e in Istria, il Marchesetti rinvenne significativi
reperti, ancora oggi conservati nei civici musei triestini; le sue scoperte
vennero pubblicate nel "Bollettino della società Adriatica di Scienze naturali".
Sebbene i resti dei villaggi e delle necropoli annesse a queste fortificazioni siano quasi totalmente scomparsi, nei più antichi sono state ritrovate ceramiche e utensili in pietra levigata, ossa di cervo, tra i rari oggetti metallici delle fibule di tipo la Certosa, risalenti al VI-V secolo a.C., scoperte nei castellieri di Trieste e del Carso. La ceramica è caratterizzata da un'impasto nero opaco, con varie tipologie di anse, base decorata a solchi circolari concentrici disposti attorno ad una rientranza concoidale. I manufatti di selce sono perlopiù martelli e accette di pietra verde, pietre da fionda, qualche macina.
Dopo l'esplorazione scientifica, avviata nel
1925, sui castellieri di Monte Ursino e di Fontana del Conte, si giunse alla
conclusione che il vallo non deriva sempre e soltanto dal crollo della cinta
muraria, ma che può essere una tecnica più complessa di costruzione muraria,
realizzata allo scopo di ottenere un livello orizzontale stabile. Venne
stabilita anche l'esistenza di due tipi di castellieri: il tipo a muraglioni,
comune nell'Istria meridionale e nelle isole del Carnaro, e il tipo a
terrapieno, utilizzato nell'altipiano della Piuca, dove i più antichi
appartengono all'età del bronzo e i più recenti a quella del ferro.
Oltre a difesa di un nucleo abitativo, i castellieri potevano essere utilizzati
quale ricovero di animali, o in presenza di altari di pietra, destinati al culto
votivo.
Per le loro caratteristiche, i castellieri sono stati riutilizzati, sia al tempo degli antichi romani, sia durante il Medioevo, alcune teorie fanno risalire Trieste e Pola ad antichi castellieri.
Citiamo alcune delle località dove sono presenti
dei castellieri: Cattinara, Conconello, Contovello, Duino Aurisina "Castelliere
Carlo De Marchesetti", Elleri, Ermada, Gradez, Kluc', Monrupino, Monte
Castiglione, Monte Carso, Monte Coste, Monte d'Oro, Monte Grisa, Monte Grociana,
Monte San Leonardo, Monte San Michele, Monte San Primo, Monte Spaccato,
Montebello, Nivize, Prosecco, Rupingrande, Rupinpiccolo, San Giusto, San
Leonardo, San Lorenzo, San Michele della Rosandra, Sales, San Polo a
Monfalcone, San Servolo, Santa Croce, Slivia, San Vito, Sant'Elia, Slivia,
Zolla...
Origini della città di Trieste
Incerte e controverse rimangono le origini di Trieste. Dopo il X secolo a.C. è documentata sul Carso la presenza dei primi nuclei di indoeuropei, gli Istri, e di alcuni castellieri da essi edificati. Ma con ogni probabilità gli Istri non furono i primi abitanti della antica Trieste.
Il geografo greco Marciano ricorda che gli
antichi abitanti della città avrebbero creduto, come molte delle città greche e
italiche più antiche, che essa avesse preso il nome da un eroe o semidio,
eponimo fondatore "Tergesto", un Argonauta che l'avrebbe fondata in riva al
mare.
Plinio, raccontando i miti di Giasone e Medea, narra come gli Argonauti, dopo
aver conquistato il Toson d'Oro, avrebbero risalito il corso del Danubio e i
suoi affluenti fino ai piedi delle Alpi Giulie, dove, caricando le navi sulle
spalle, discesero a valle fino a raggiungere le spiagge del mar Adriatico (non
procul Tergeste), non lontano da Trieste.
Erodoto racconta, come fosse già risaputo ai suoi
tempi, che i Greci della Fòcide, già nel IX o nell'VIII secolo a.C., avrebbero
risalito l'Adriatico avviando un intenso commercio tra le nostre terre e le
colonie greche dell'Italia meridionale, dato supportato dai ritrovamenti di vasi
greci arcaici (VI-V secolo), presenti nelle necropoli preistoriche della Regione
Giulia. Virgilio narra la storia di Antenore, principe veneto, che con la sua
gente, dopo la caduta di Troia, fuggi dai Greci risalendo l'Adriatico fino ad
arrivare alle foci del Timavo, che divenne fiume sacro dei Veneti, presso le cui
risorgive essi costruirono un tempio dedicato a Nettuno. Strabone menziona la
costruzione di un tempio alle sorgenti del Timavo, dedicato non a Nettuno ma a
Diomede, il re trace domatore di cavalli.
" Tracce di un castelliere e oggetti di selce, di ceramica, d'osso e di corno, attribuiti allo strato «protovèneto», furono trovati sul colle di Montebello, ai limiti di Rozzòl. Rovine di castellieri furono vedute presso Cattinara, a Contovello, a Conconello, sul monte Spaccato e sul monte Grisa, lungo tutto il ciglione della Vena, nel circondario di Trieste. Il suo territorio fu dunque abitato in maniera relativamente intensa. Ma la collina che dà sul porto, dove oggi è la nostra città? " (Attilio Tamaro, Storia di Trieste, Vol. I)
Strabone fa risalire la fondazione di Tergeste al popolo celtico dei Carni.
"I più antichi abitanti di questi ultimi scoscendimenti delle Alpi Giulie dei quali ci sia pervenuta memoria erano Celti o Galli e propriamente di quel popolo ch'ebbe nome di Carni. Da Strabone si apprende che nella sua origine Trieste si chiamasse Pago Carnico. Dei fasti di questo popolo tace la storia, nè avanzarono monumenti in testimonianza del loro grado di civiltà. In epoca non bene precisabile, ma presumibilmente circa 700 anni innanzi l' E.V., un popolo Trace cacciato a quanto sembra dalle sue sedi alle foci dell' Istro, risalì il Danubio e la Sava, si ripiegò sulle Alpi presso Lubiana e venne a stabilirsi sulle rive dell'Adriatico. Egli respinse e sottomise gli abitanti Celti del paese e gittò lungo la costa, le fondamenta di parecchie città, tra le quali Trieste". (Ettore Generini, Trieste Antica e Moderna, Trieste 1884)
Ma la fondazione del primo nucleo della romana Tergeste potrebbe anche risalire ai Veneti o Paleoveneti, come testimoniato dalle radici del nome "Terg" ed "Este".
" Se Trieste non fu già castelliere «protovèneto», si dovrebbe considerare di fondazione veneta. L'argomento più probante sarebbe nel suo stesso nome di Tergeste, che è il più antico. Vale a dire nel suffisso -este, che si trova in Ateste e in Segeste, due sedi di Veneti protoitalici, delle quali la prima appare essere stata il massimo centro della civiltà diffusa allora nella Venezia Giulia, anche intorno a Trieste, e detta appunto atestina o veneta ". (Attilio Tamaro, Storia di Trieste, Vol. I)
Purtroppo le fonti in proposito sono molto scarse e frammentate e scritti attendibili non sono giunti sino a noi. Per la sua posizione geografica piuttosto isolata, Trieste, rispetto al mondo classico dei Greci, era probabilmente poco conosciuta e questo spiegherebbe il motivo per cui le notizie su di essa sono molto vaghe.
Altre considerazioni su Carni e Càtali (popolazione celtica), i quali avrebbero occupato il territorio dell'attuale Friuli Venezia Giulia già nel X secolo a.C.: dai racconti della conquista romana, gli eserciti romani non trovarono al Timavo altre popolazioni se non gli Istri.
Per quanto riguarda il mito di Antenore, che l'Iliade lo menziona come saggio troiano adoperatosi per invano per scongiurare la guerra con gli Achei. Dal matrimonio con Teano Antenone ebbe numerosi figli maschi che presero parte alla difesa di Troia. Dopo la distruzione di Troia, Antenone con la moglie e i figli superstiti raggiunse le coste del nord Italia, fondando poi Antenorea, denominata in seguito Padova.
Questo spiegherebbe le
opinioni degli studiosi i quali ritengono che i primi abitanti di Trieste
fossero veneti. Il mito dimostrerebbe comunque che nella fondazione della città
vi è stato l'apporto di una corrente egeo-anatolica, quale appunto poteva essere
quella veneta. Quanto alla fondazione della città da parte di un eroe di nome
Tergesto o Tregesto, di origine greca, il mito si limiterebbe alla
contemporaneità della sua nascita con le altre città balcaniche, ad opera di
quei primi gruppi di indoeuropei, che a partire dal XIV secolo a.C. si diffusero
in tutta quest'area.
A seguito della conquista romana (II secolo a.C.), l'antica Tergeste iniziò a sviluppandosi progressivamente acquisendo una fisionomia urbana che raggiunse la sua massima espansione durante l'impero di Traiano, con una popolazione che, secondo lo storico P. Kandler, doveva aggirarsi attorno ai 12.000 abitanti.
I fatti che precedono l'invasione romana del
territorio ricordano gli Istri e la loro alleanza con Demetrio di Faro (Lèsina)
contro Roma, che condusse ad una prima azione militare da parte dei romani (220
a.C.). Non si hanno notizie se a questa battaglia, nelle file degli Istri,
abbiano partecipato anche gli abitanti dell'antica Tergeste.
Nel 183 a.C., Roma iniziò una guerra contro gli Istri, giustificata sia dagli
interessi geografico-economici, sia dal fatto che essi erano da sempre alleati
dei loro nemici e costituivano una costante minaccia alla sicurezza dei
territori conquistati. La guerra del 183 fu interrotta per ragioni politiche, ma
le ostilità ripresero due anni più tardi quando gli Istri cercarono di
ostacolare la costituzione della colonia aquileiense. I tergestini allora erano
governati dal re degli Istri Aipulone o Epulone — regulus Aepulo, ci dice Tito
Livio.
Nel 178, il console Manlio Vulsone mosse, da Aquileia, alla conquista dell'Istria e dei confini orientali, inviando la flotta del duumviro Furio «nel prossimo porto dell'Istria», (quindi, o nell'insenatura di Servola o nel vallone di Zaule). E' possibile che l'esercito di Manlio Vulsone si sia portato nei pressi di Basovizza, dato che nel vicino monte Grociana ci sono i resti di un forte castelliere istriano. Il Marchesetti propone invece l'attendamento romano tra Montebello e Cattinara, ove spesso vengono rinvenuti cocci romani e dove minore è la distanza dal mare e dalla flotta navale. La battaglia che ne seguì vide dapprima la seconda legione del pretore Strabone sconfitta e rigettata sino al mare. Gli Istri sferrarono il loro attacco la mattina presto, quando era ancora buio, gettando nel panico la massa dei soldati romani che, colti di sorpresa, si mise in fuga. Rimasero nel campo solo 600 uomini, il pretore e gli ufficiali, che vennero travolti e trucidati. Gli Istri, dopo la vittoria, avendo trovato nel campo viveri e vino, si misero a banchettare e a ubriacarsi. Questo consentì ai Romani di riorganizzarsi e di sferrare un micidiale contrattacco dopo qualche ora; gli Istri sopravissuti si ritirarono disperdendosi nei vari villaggi.
Nei territori conquistati vennero lasciati presidii
d'occupazione e le legioni rientrarono a svernare ad Aquileia, in attesa della
nuova campagna di primavera.
L'anno seguente (177 a.C.), i consoli Manlio Vulsone e Giunio Bruto,
successivamente sostituiti dal console Appio Claudio Pulcro, portarono le truppe
nell'Istria fino a Nesazio, l'attuale
località di Altura (in croato Valtura) e di Monticchio (in croato Muntić),
nell’Istria meridionale.
Gli scavi archeologici, iniziati da Pietro Candler sul finire del
XIX secolo, hanno messo in luce un castelliere con annessa necropoli, precedente
a Nesazio, il maggiore centro e capitale degli Istri. Nesazio, assieme a Mutila
e Faveria fu una delle ultime sacche di resistenza alla conquista romana e
sopportò un lungo assedio prima d’essere espugnata e saccheggiata. Il
re Epulone e l’intera sua corte, come buona parte della residua popolazione, si
diedero la morte prima dell’entrata delle truppe romane per non cadere in
schiavitù.
La vicenda è
narrata nel “De Bello Histrico” (opera perduta) e ci viene riportata da Ennio
nei suoi Annales e
da Livio nel Ab Urbe condita.
Nesazio, dopo la conquista, divenne un castrum romano.
In seguito, tornata a fiorire, un municipium autonomo,
seconda per importanza solo alla vicina città di Pola, che i romani vollero
erigere a principale centro della penisola.
Nel
27
a.C.
Cesare
Ottaviano
Augusto,
primo
imperatore,
suddivide
la
penisola
in
11
regioni
fra
le
quali
appare
la
“Decima
Regio
Venetiae
et
Histriae”.
Trieste
diviene
così
territorio
romano
recante
l’appellativo
di
Julia
dal
nome
della
famiglia
di
Ottaviano
(Julii).
Nel
77
d.C.,
nella
sua
"Nauralis
Historia",
Plinio
il
Vecchio
nomina
un
Tergestinus
sinus.
Bassorilievo rinvenuto nel 1814 durante gli scavi eseguiti nel suolo del campanile di S. Giusto, ora nella collezione dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste. Incisione di Pietro Nobile, 1814.
Della Trieste di allora non si ha memoria se non dai resti che dal colle di san Giusto scendono verso il mare: sul Colle si trovano i Templi dedicati a Giove e Atena (alcune strutture architettoniche sono nelle fondamenta della Cattedrale); il Teatro, risalente alla fine del I secolo a.C. (ampliato sotto Traiano) con una capienza di circa 6.000 spettatori; la "Basilica paleocristiana", edificata fra il IV e il V secolo; l'"Arco di Riccardo", antica porta cittadina risalente al 32 a.C. (successiva alla "Porta di Ercole" di Pola, del 42 a.C.), alta m. 7,20 e larga m. 5,30, con una evidente sproporzione fra la luce e l'altezza; i reperti venuti alla luce durante gli scavi nella zona di Crosada per il “progetto Urban”; i più recenti scavi per il Park San Giusto da cui sono emersi resti archeologici risalenti alla fine del I° secolo a.C., quali strutture murarie, sistemi di terrazzamento e di scorrimento delle acque con un sistema di drenaggio articolato attraverso anfore capovolte, assieme a resti di edifici altomedievali e trecenteschi collegati da pastini.
Nel passato sono stati rinvenuti resti di ville, erette nel I e II secolo d.C., a Barcola, Grignano e altre località della costa. Il porto romano era situato in zona Campo Marzio, con una serie di scali di più modeste dimensioni lungo il litorale: sotto San Vito, a Grignano, a Santa Croce, ecc.. Due acquedotti alimentavano la città, quello di Bagnoli e quello di San Giovanni di Guardiella.
Ricostruzione del
castrum, individuato da Guido
Zanettini (dal sito National Geografic)
In un primo tempo si pensava che la Tergeste romana fosse sorta sul colle di San Giusto, in un'area che offrisse riparo dal vento, ma nel 2013, grazie a un radar ottico chiamato lidar (light detection and ranging), montato su un aeroplano, e a un georadar per lo studio del paesaggio, sono emersi dei nuovi insediamenti situati tra Montedoro e la baia di Muggia, porto naturale. La scoperta, che ha portato alla luce un accampamento romano con due castrum minori, risalenti al 180 a.C., si deve all'archeologo Federico Bernardini, dell'Istituto Internazionale di Fisica Teoretica Abdus Salam di Trieste e del Museo Storico della Fisica e Centro di Studi e Ricerche Enrico Fermi a Roma. Annunciata sulla rivista dell'Accademia di Scienze degli Stati Uniti (Pnas), il ritrovamento avrebbe quindi portato alla luce la "prima" Tergeste romana.
Trieste
Romana
-
Approfondimenti
Nel 489, Teodorico, re degli Ostrogoti inflisse una pesante sconfitta ad Odoacre, re degli Eruli, in una battaglia sull'Isonzo, dopo che questi aveva deposto Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano.
Trieste
nel
VI
secolo
La
città
nel
539
venne
aggregata
all’Impero
d’Oriente
insieme
al
Veneto
e
all’Istria.
Durante le invasioni barbariche il territorio venne sottoposto a continue stragi, alle quali si assommarono carestie ed epidemie, in particolare la peste.
Nel 568, Alboino, alla testa di circa centomila Longobardi, scende in Italia attraverso la valle del Vipacco e occupa il Friuli, saccheggia e distrugge Trieste, uccidendo la maggior parte degli abitanti.
Nel 570 viene nominato il primo vescovo "Geminiano".
La
ricostruzione
della
città
inizia
nel
571.
Per tutto il secolo si susseguono incursioni da parte degli slavi, che si erano insediati nei dintorni di Trieste a partire dall'anno 593.
Giulio Bernardi
All'inizio del IX secolo, allorché fu costituita la marca del Friuli, l'Istria le venne aggregata.
Trieste invece, già nel 948 venne a trovarsi in condizioni particolari e diverse. I re d'Italia avevano direttamente attribuito feudi e privilegi ai vescovi triestini. Secondo Kandler, Lotario e Lodovico avrebbero donato loro una baronia. Da Berengario nel 911 e da Ugo nel 929 ebbero, fuori dell'agro triestino, altre baronie minori, che non li sottraevano però all'imperio del governatore regio. Ma nel 948 (Pavia, 8 agosto) Lotario II concesse al vescovo di Trieste l'alto governo facendolo dipendere direttamente dalla corona.
Il re dona, concede, largisce ed offre alla chiesa di San Giusto «omnes res
iuris nostri Regni atque districtus et publicam querimoniam et quidquid publice
parti nostre rei pertinere videtur, tam infra eandem Tergestinam civitatem
coniacentes, quam quod extra circuitum circa et undique versus tribus miliariis
portentis. Nec non et murum ipsius civitatis totumque circuitum cum turribus
portis et porterulis...» Continua accordando al vescovo tutte le rendite e i
balzelli di spettanza regia, vietando a qualunque persona grande o piccola del
suo regno l'esazione della « curatura» d'ogni « vectigal» o «publica functio»,
ed esentando i triestini dall'osservanza delle sentenze d'altre autorità: «nec
custodiant placitum auctoritate alicuius principis». Tutto ciò « tamquam ante
nos aut ante nostri comitis presentiam palatii».
Quale sia stata la forza usata dai triestini per ottenere prima degli altri una
situazione privilegiata non ci è oggi dato di sapere. L'occasione sembra essere
stata quella di una nuova invasione di Magiari lungo la via di Postumia, che si
riversò sui Carsi e in Italia. Berengario, supremo consigliere di re Lotario, li
arrestò con una forte somma di denaro, raccolto dalle Chiese.
Dentro le antiche mura romane, i triestini, mentre il nembo passava sul Carso,
cooperarono a raccogliere la somma del riscatto richiesta da Berengario. Il
diploma dell' 8 agosto 948 seguì forse per riconoscimento e gratitudine.
Certamente, nel promuoverne la stesura, fu decisiva l'anima della città,
espressa in vivissima attenzione all'immediatezza dei rapporti con l'autorità
centrale, che sembra peculiare a Trieste in tutte le epoche. Comincia così «de
iure» nel 948 quella particolarità di sviluppi che contrassegnerà Trieste di
fronte alle città istriane attraverso il medio evo e l'età moderna e creerà
nella città una coscienza particolaristica insopprimibile.
Col progredire del X secolo s'indebolisce generalmente l'assetto dato dai
Carolingi all'Italia, e venendo meno il potere dei conti s'accresce a mano a
mano quello dei vescovi, intorno ai quali si stringono le cittadinanze
abbandonate a se stesse: vescovo e cittadini sollecitano dai re il diritto di
rinforzare mura e torri in propria difesa. In seguito i conti si riaffermano in
qualche misura, non sono però come gli antichi e solo in parte ne riprendono le
mansioni; i vescovi stessi invece, se non di diritto, divengono di fatto conti
nelle loro città. Enrico II Imperatore sistema giuridicamente questo stato di
fatto, volgendo ai propri fini l'attività dei vescovi-conti, ai quali delega o
cede parte delle cure del governo. In Istria fioriscono nuove signorie vescovili
e i vescovi, divenuti ricchi e potenti baroni, infeudano decime e immobili a
famiglie di cittadini e a castellani, costituendo curie di vassalli, delle quali
serbano memoria gli statuti cittadini e i documenti. D'accordo con le
cittadinanze, i vescovi-conti si sforzano di far coincidere i confini della
diocesi-signoria con quelli dell'antico municipio. Non pare peraltro che tra il
Vescovo e la «civitas» triestina si sia instaurato già in quell'epoca un
rapporto di tipo feudale, come ad esempio, secondo Tamaro, era tra il Patriarca
e Muggia.
Dalle monete del Duecento, appare invece chiaro che un rapporto di dipendenza
feudale ormai intercorreva tra il patriarca di Aquileia e il vescovo di Trieste.
La storia non lo nega: Enrico IV infatti conferì nel 1081 al patriarca
aquileiese Enrico (e li riconfermò nel 1082) i diritti che aveva come Re
d'Italia (rex si dice egli
stesso nel diploma) sui vescovati di Trieste e Parenzo. Sul vescovado di
Trieste, che gli appare in condizioni miserabili, richiama la particolare
protezione del Patriarca. Il vescovo triestino quindi, alla fine del secolo XI,
da vassallo imperiale, dipendente dal patriarca di Grado, divenne vassallo del
patriarca di Aquileia.
Il passaggio fu confermato dalla transazione intervenuta nel 1180 fra i
patriarchi di Grado e di Aquileia per le giurisdizioni metropolitiche.
Nel corso del Duecento il vescovo di Trieste riconobbe ripetutamente di avere in
feudo dal patriarca di Aquileia il dominio della città di Trieste. Così in un
protocollo del 1289, stilato dal notaio Gubertino da Novate, comunicato
dall'abate D.G. Bianchi a Kandler, che lo inserì nel Codice Diplomatico
Istriano.
Il dominio feudale del vescovo si estende su: «in primis Civitatem Tergesti cum
muris, cintis, portis, vectigalibus, cum Muta, Moneta, Regalia, intus et extra
circumquaque tribus miliaribus portentis. Item habet Umagum Siparum Castrum
Vermes, et totam insulam Patiani usque ad Fontanam Georgicam. Item habet Castrum
Calisendi cum omnibus pertinentiis suis, quod Castrum, quedam Comitissa nomine
Azika contulit Ecclesiae Tergestinae».
Che Trieste non fosse compresa tra le città istriane infeudate al Patriarca nel
1209 ad Augusta potrebbe anche significare che la permanenza dell'antico vincolo
feudale non aveva bisogno di riconferme.
La città.
Non miserabili appaiono le condizioni della città nel racconto di Al Idrisi
(«Libro di Re Ruggero», circa metà del dodicesimo secolo). Il grande
viaggiatore e geografo arabo descrive Trieste come «città prospera, di grande
diametro, suddivisa in rioni, popolata di mercanti e artigiani, città ben
difesa, sull'ultimo lato del territorio di Venezia: è l'ultimo paese dei
Veneziani nel golfo omonimo, e i pirati del territorio di Aquileia vi tengono
una flotta militare pronta alle invasioni».
Il numero di abitanti nel XIII secolo è stimato da Montanelli in un numero
approssimativo di 4.800.
Il dato va confrontato, per essere significativo, con quelli di altre città: Aquileia, Udine (6.000), Lubiana, Padova (15.000), Treviso, Verona (40.000) mentre solo Venezia contava più di 100.000 abitanti.
Inizi del Comune.
Torniamo al diploma di Lotario del 948. Esso segna una data importantissima
nella storia, purtroppo lacunosa e oscura, della «civitas» triestina dell'alto
medioevo. In pericolo d'esser travolti dal feudalesimo montante che li avrebbe
aggregati a potenti principi d'oltralpe, i triestini si strinsero al loro
vescovo, da loro stessi eletto e salutarono certo con gioia il privilegio che
sottraeva la custodia delle mura, l'esazione delle imposte e dei dazi,
l'amministrazione civile e la giudiziaria ad altro signore.
La vecchia classe degli «honorati», detti poi «boni homines et idonei» continua
ad esercitare modeste funzioni amministrative, in posizione subalterna, ad
esprimere dal suo seno i giudici di prima istanza nel civile, conservando e
tramandando tenace il ricordo dell'antico municipio e della sua curia, le
consuetudini, il sentimento di solidarietà economica e sociale. L'autorità
vescovile non dava loro fastidio, finché il presule era eletto per lo più tra di
loro o quantomeno con il loro concorso, ed essi avevano gran parte nel Capitolo
e nella curia dei vassalli episcopali, finché, insomma, gli interessi e le
persone del pastore, del clero e della classe dominante furono quasi i medesimi.
Ma pare che già Ricolfo (1007-1017) provenisse direttamente dalla chiesa di
Eichstaett in Baviera e fosse investito dall'Imperatore. Così i suoi successori
Adalgero (1031-1072) e Eriberto (1080-1082). Certo nei secoli XI e XII sempre
più i vescovi assunsero il carattere di vassalli diretti dell'Impero. Ne
conseguiva la partecipazione a campagne militari e politiche lontane che,
stremando in gigantesche competizioni le loro energie e i redditi della diocesi,
senza soddisfazione alcuna della città, interessavano solo pochi membri della
«curia vassallorum». Ciò avviene in sintonia con la storia del patriarcato di
Aquileia, il cui soglio pervenne in mano a famiglie tedesche, legate alla grande
politica imperiale germanica, rimanendovi fino all' elezione del patriarca
Gregorio (1251-1269).
Il dissidio tra il vescovo e la cittadinanza si delinea, si acuisce e prende
forma.
Destreggiandosi abilmente, i cittadini ottengono via via privilegi e
riconoscimenti alla loro collettività, che, in pieno feudalesimo, è ormai un
ente di fatto, non tutelato dai pubblici poteri.
In quest'oscuro periodo, nel quale cade il tramonto d'un assetto antico e
rimpianto sempre, si formano e si stringono i nuovi interessi e i nuovi vincoli,
si foggia e si rassoda la «civitas» novella. E' peraltro noto che il Comune
italiano non fu mai in possesso di tutti gli elementi originari che formavano la
sovranità, ma che si appagava di un certo numero più o meno esteso di diritti
sovrani, i quali garantivano lo sviluppo di un'ampia autonomia, senza
raggiungere l'indipendenza assoluta: la piena sovranità fu conquistata solo
tardi, da pochi Comuni e quando già il diritto comunale era in decadenza.
A Trieste già nel X secolo dunque accanto al vescovo signore esisteva una
collettività abbastanza forte per essere apprezzata quale cooperatrice e
fiancheggiatrice, con voce autorevole nel capitolo e nella curia dei vassalli
vescovili. Negli scarsissimi documenti dell'epoca sono menzionati di solito il
vescovo, o un suo ufficiale, e i rappresentanti della città.
Locopositi e Gastaldi.
In un documento del 933, Trieste è rappresentata da un «locoposito», forse
designato o eletto dal vescovo. Primo tra gli «scabini» (rappresentanti della
cittadinanza), egli forse corrisponde al primate che appare di questi tempi
nelle città dalmatiche, però sembra prevalere in lui il carattere di primo
rappresentante cittadino. Nel corso del secolo XI, il locoposito perde via via
la sua importanza e il titolo si riduce a una qualificazione onorifica ed
ereditaria. In sua vece spunta, nel secolo XII, il gastaldo che poco ha a che
fare con il gastaldo longobardo o franco, ma invece sembra assumere anche nelle
città istriane il posto di primo ufficiale, come magistrato elettivo, facente
parte del collegio dei giudici, cioè delle supreme cariche cittadine perpetuanti
quelle del municipio romano.
A Trieste il gastaldo, preposto dal vescovo signore della «civitas», riuniva in
sé ai poteri amministrativi e giudiziari conferitigli dal vescovo, che egli
esercitava in qualità di agente, anche la rappresentanza dei cittadini. A
seconda della sua maggiore o minore potenza, la «civitas» designava al vescovo
la persona dell' eleggendo e talvolta addirittura forse lo imponeva.
Affermazione del Comune.
Precipuo carattere di rappresentante della «civitas», anzi già del «commune
Tergestine civitatis», ha quel gastaldo di Trieste che incontriamo nel lòdo
arbitrale pronunciato da Ditmaro, vescovo di Trieste, per la lite fra il comune
di Trieste e Dieltamo (sic), signore di Duino nell' anno 1139.
Tra le varie signorie formatesi dopo il mille in Istria e nella Carsia è
notevole quella dei Duinati che dalla loro rocca dominavano la via litoranea.
Molesta riusciva ai triestini quella rocca tedesca appollaiata come un falco e
croniche furono le contese di confine. Il Comune e il signore di Duino, che si
accusavano a vicenda di turbazioni di possesso, si accordarono infine di
rivolgersi a Ditmaro. La città aveva quale procuratore il gastaldo Ripaldo,
assistito da dodici «boni homines», i quali provarono con giuramento che tutte
le terre dalla strada carreggiabile al mare, tra Sistiana e Longera, erano
«possessio communitatis Tergestine civitatis». Le parti contendenti
s'impegnarono a rispettare questa linea di confine, e il vescovo «posuit inter
eos» la penale di cinque lire d'oro. In questo importantissimo lòdo ricorre per
la prima volta il nome di «commune Tergestine civitatis». Szombathely richiama
particolare attenzione sulla distinzione tra «civitas» e «commune». Questo
appare come parte, avente una sua personalità, e investe di piena rappresentanza
un suo procuratore: vanta diritto di proprietà sul territorio che è limitato
dalla via pubblica tra Sistiana e Longera, e poi dalla catena dei monti Vena e
dal mare. Non si tratta della zona di signoria del vescovo, ristretta a un
cerchio di tre miglia di raggio, ma proprio dei beni dei cittadini. Il lòdo
prova dunque che agli inizi del secolo XII i cittadini hanno già costituito
l'associazione volontaria giurata, onde è nato e s'evolve il nuovo ente, e che
questo ha ottenuto il riconoscimento, almeno tacito, del vescovo. Esso è ancora
infante, ma già pieno di promettente vigore; e già si delinea preciso il
territorio del futuro piccolo stato sovrano, in perfetta corrispondenza con la
dicitura del suggello trecentesco: SISTILIANU PUBLICA CASTILIR MARE CERTOS DAT
MICHI FINES.
Disegno tratto dall'impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due tipari conservati al Museo di Trieste.
A proposito di questo sigillo, ricordo che esso appare per la prima volta a
stampa nell' «Historia di Trieste» del Padre Ireneo della Croce del 1698 in
quella forma che ci è stata tramandata nei due tipari conservati nei Civici
Musei che (Kandler?) giudica «di fattura moderna».
Non ho mai trovato un documento antico con l'impronta di questi suggelli, tanto
che dubito fossero mai stati usati dal Comune di Trieste in senso proprio. Forse
si tratta di copie fatte per essere tramandate, all'epoca (1516) in cui il
sigillo triestino fu ricreato, con lo stemma dell'alabarda in campo fasciato,
sormontata dall' aquila bicipite.
Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369.
Ho avuto occasione di vedere un'impronta dell'anno 1369 ma il sigillo è di
fattura assai differente. L'evoluzione del comune di Trieste procede
analogamente a quella delle vicine città istriane, ma più lenta e con qualche
caratteristica sua. Anche secondo Vergottini a Trieste lo sviluppo è molto più
lento, appunto perché nel 1100 la città non deve strappare l'autonomia ai
marchesi d'Istria, lontani dalla provincia e assorbiti dalla partecipazione alla
grande politica imperiale, ma ai propri vescovi. Erano anni agitati, pieni di
contese con i vicini e di azioni militari per difendersi dall'espansionismo di
Venezia. Tra il 1145 e il 1149 Bernardo, vescovo di Trieste, guerreggiò,
rimanendone sconfitto, con Muggia, Capodistria, Isola e Pirano, che gli negavano
le decime.
Le gravi spese militari, i danni e l'insuccesso non giovarono all' autorità
vescovile e provocarono dissidi tra il Comune e il bellicoso presule.
Non molto dopo, nel 1190, il clero e il popolo di Trieste chiesero che fosse
reso loro il diritto di eleggere il vescovo, diritto appartenuto, come sopra
detto, fin dal 1081 al Patriarca per i vescovati di Trieste e Parenzo, per
concessione di Enrico IV. Due anni dopo furono esauditi dal Pontefice e il
Patriarca confermò Wolcango (o Voscalco), da loro eletto. E' questa l'epoca
della coniazione dei primi denari triestini. Essi sono in tutto simili alle
monete patriarcali, con le iscrizioni : TRIESTE PISCOP invece che AQVILEGIA.P.
Nel Duecento gli uomini del Comune comprano e, quando li hanno perduti,
ricomprano dal vescovo mediante contratti di tipo mercantile i diritti sui quali
si fonda il potere comunale.
Sono: «jus Collectae vini, et jus Petrolii, et jus Calcificum, et Pelliparie, et
jus Appellationum...et jus Consulatus...et jus Condemnationis et redditus...
excepta condemnatione sanguinis, quam Gastaldio cum Judicibus facere debeant
secundum formam Statuti, quod Consules facient.»
Questi diritti, riscattati per denaro, saranno i cardini degli statuti comunali
che si vanno formando. Il vescovo, da parte sua, cerca di inquadrare nel diritto
pubblico le concessioni cui è costretto, dando loro carattere di investitura o
delega feudale.
Nell'anno 1292, come rileviamo da un documento del Codice Diplomatico Istriano
del 5 febbraio, il Comune triestino stipulò un patto di alleanza e di concordia
con il capitolo della Chiesa, promettendosi reciproco aiuto «pro rata bonorum».
Tre anni dopo il vescovo di Trieste Brissa di Toppo trasfuse nel Comune il
gastaldionato e le regalie su Trieste.
I podestà istriani.
Ad onta degli screzi, che spesso nascevano, l'esser sede vescovile era
considerato un onore e un fattore di potenza. Infatti Capodistria, da due secoli
priva di un proprio antistite e riunita alla diocesi di Trieste, impetrò nel
1186 il ripristinamento del suo vescovado, e lo dotò del reddito di cinquecento
vigne e d'altri fondi rustici e con la decima dell'olio. In quest'occasione ci
si presenta il primo podestà istriano, con tre consoli. Autonomia sufficiente a
fare patti direttamente con Venezia era stata conquistata già nel 1150 da
Cittanova, Rovigno, Parenzo, Umago e Pola, retta da una balìa di nobili.
Nel 1192 il regime podestarile e consolare appare anche a Pirano, indi lo
ritroviamo a Pola (1199), mentre Parenzo ha ancora un gastaldo con tre rettori.
Trieste continua ad avere gastaldi per tutto il secolo: il Ripaldo del 1139
ricompare dopo tredici anni, e un Vitale è gastaldo nel 1184 e figura di nuovo
tra coloro che giurano fedeltà a Enrico Dandolo, a nome di Trieste nel 1202. E
anche nel duecento si notano gastaldi, Mauro (1233 e 1237) ed Ernesto (1257).
La Civitas.
Civitas, nella terminologia latina, è una società di uomini liberi, organizzata
a difesa in un singolo agglomerato urbano e ricavante i mezzi di sussistenza dal
breve contado circonvicino.
Nelle prime monete triestine si nomina soltanto il vescovo: TRIES E PISCOP, come
ad Aquileia soltanto il patriarca : AQUILEGIA.P.
L'uso del nome TRIESE, che, osservando bene la forma dell'ultima E, può essere
letto TRIESTE, prima dell'adozione del latineggiante TERGESTVM, è documentato da
queste antiche monete e forse da poche altre fonti. Secondo A. Tamaro il «Chronicum
Venetum», che è del X o dell'XI secolo, porta la forma neolatina cioè italiana
di TRIESTE, in una carta del 1106 si legge IN EPISCOPATO TRIESTINO, nell'anno
1115 compare il nome di persona TRIESTO e Santa Maria de TRIESTO è detta l' «ecclesia
maior» un atto del 1172.
In epoca romana il nome della città, come si legge nelle lapidi, fu sempre
TERGESTE indeclinabile.
Nelle monete immediatamente successive alle prime, viene nominata anche la
CIVITAS TRIESTE, parallelamente alla comparsa sulle monete patriarcali
dell'iscrizione CIVITAS AQUILEGIA. Non succede così nella vicina Gorizia, dove
il nome della città è legato solo al titolo del COMES e al nome di Lienz, né a
Latisana, designata come PORTUM. A Lubiana il nome della città definisce invece
i denari: LEIBACENSES DE, ma esistono anche esemplari con CIVITAS LEIBACVN.
Venezia non è mai Civitas nelle sue monete: il nome della città è sempre
predicato del titolo dogale.
La CIVITAS è ricordata dalle monete aquileiesi fino al 1256, cioè per l'ultima
volta nelle monete di Gregorio con il titolo di Electus, prima della sua
consacrazione episcopale. A Trieste, invece, l'uso continua ancora all'epoca del
vescovo Ulvino de Portis (1282-1285), mentre non c' è più nei denari di Rodolfo
(1302-1320), che si fregia del titolo di TERGESTINUS, come AQUILEGENSIS si
nomava il Patriarca fin dall'epoca di Raimondo (1273-1298). Quale significato ha
il riconoscimento, contemporaneo alla corte patriarcale e nella curia triestina,
dell'esistenza della rispettiva CIVITAS? Quale la permanenza di questo
riconoscimento a Trieste più a lungo che in Aquileia? Innanzitutto è prova della
stretta interdipendenza iniziale tra le due monetazioni, ma nel contempo mostra
che Arlongo vescovo di Trieste dal 1254 al 1280 eredita, dal periodo di
coniazione comunale, una regia monetaria più autonoma, meno strettamente legata
alla patriarcale. In secondo luogo testimonia la considerazione del Patriarca e
del Vescovo per l'insieme dei cittadini, dei quali è presupposto in tal modo il
consenso, anche nell'iniziativa monetaria che pure era, come abbiamo visto,
finalizzata anzitutto ali' accrescimento delle risorse finanziarie del sovrano.
Qui occorre una nota di carattere filologico, che andrebbe sviluppata in altra
sede. Con una frequenza tale da non permettere di pensare che sia frutto di
errore, il nome di Trieste è scritto, sulle monete dei tempi più antichi:
ATRIESE. Atria, da cui il mare Adriatico, è una parola che deriva da atrium, che
significava in dialetto italico un luogo ove si spandevano le acque, cosicché
ATRIA veniva ad indicare la città di fondazione tusca che si trovava alle foci
del Po. ATRIESE potrebbe essere espressione del desiderio di legare il nome di
Trieste al nome del mare Adriatico, producendo anche nell'etimo un'affermazione
d'italianità d'origine che pare si sentisse necessaria già nel 1200.
Gli eventi in ordine
cronologico.
Rapporti con Venezia, con le città istriane e con il Patriarca di Aquileia.
Riassumo in un elenco cronologico i principali avvenimenti, inserendovi una
tavola sinottica dei vescovi (TS ), dei patriarchi (°AQ°), dei conti di Gorizia
(-GO-), dei dogi veneziani (:VE:), dei papi(+RO+) e dei re e imperatori (*IM*).
902 Diploma di Berengario - Bonomo documento I
948 Diploma di Lotario - Kandler.
1040 Conferma di Enrico III - Bonomo documento II
1050 Donazione al vescovo Erberto - Bonomo documento III
-GO- 1090-1149 Mainardo I e Engelberto I
1115 Donazione al vescovo Hartuico - Bonomo documento IV
:VE: 1130-1148 Pietro Polani doge 36°
°AQ° 1132-1161 Pellegrino I von Sponheim
TS 1135-1145 Detemaro
1139 Concordio per la definizione di confini - Bonomo documento V
1142 Conferma al vescovo
Detmaro - Bonomo documento VI
*IM* 1144-1152 Corrado III di Svevia
+RO+ 1145-1153 Eugenio III Bernardino Pagnanelli
1145 Capodistriani e Isolani prestano al Doge solenne giuramento di
«fidelitas».
Nel dicembre dello stesso anno i Polesi prestano analogo giuramento.
:VE: 1148-1156 Domenico Morosini doge 37°
1148-1152 Patti di sottomissione a Venezia di alcune città istriane.
Guerra tra il vescovo di Trieste
Wernardo e le città istriane per le decime dovutegli e rifiutategli da Muggia,
Capodistria, Isola, Pirano e Umago.
1149 Conferma al vescovo Wernardo - Bonomo documento VII
TS 1149-1186 Vernardo.
-GO- 1149-1187 Enrico I e Engelberto II
1150 Il doge Morosini si fregia , nel patto di fedeltà di Parenzo,
del titolo «totius Istriae inclitus dominator».
*IM* 1152-1190 Federico I Barbarossa
+RO+ 1153-1154 Anastasio IV
+RO+ 1154-1159 Adriano VI Nicola
Breakspeare
:VE: 1156-1572 Vitale II Michiel doge 38°
+RO+ 1159-1181 Alessandro III Rolando Baldinelli o
Brandinelli
°AQ° 1161-1182 Ulrich II von Treffen
:VE: 1172-1178 Sebastiano Ziani doge 39°
:VE: 1178-1192 Orio Malipiero doge 40°
+RO+ 1181-1185 Lucio III Ubaldo Allucingoli
°AQ° 1182-1194 Gotifredo
+RO+ 1185-1187 Urbano III Umberto Crivelli
+RO+ 1187-1188 Gregorio VIII Alberto de Morra
TS 1187 Enrico Odorico da Treviso
TS 1187-1190 Liutoldo da Duino
-GO- 1187-1220 Mainardo II e Engelberto III
+RO+ 1188-1191 Clemente III Paolo Scolari
1190 Trieste promette sottomissione a Venezia, ma non
TS 1190-1199 Volscalco
*IM* 1191-1197 Arrigo VI
+RO+ 1191-1198 Celestino III Giacomo Boboni-Orsini
:VE: 1192-1205 Enrico Dandolo doge 41 °
1194-1202 Creazione del Grosso Veneziano.
°AQ° 1195-1204 Pellegrino II von Dornberg
*IM* 1198-1218 Ottone IV di Brunswick
+RO+ 1198-1216 Innocenzo III Lotario dei Conti di Segni
TS 1199-1201 Enrico pretendente
TS 1199-1212 Gebardo
1202 I triestini, temendo più grave punizione, mandano a Pirano una
commissione per invitare il doge Enrico Dandolo a Trieste. Il doge ivi si
trovava con una flotta poderosa di navi, vascelli e galee e moltitudine di
militi e fanti pronto a salpare per quella IV crociata che porterà alla
fondazione dell'Impero Latino e della supremazia veneziana in Levante. A
Trieste lo accolgono con grandi onori e gli giurano fedeltà.
°AQ° 1204-1218 Wolfker von Erla
:VE: 1205-1229 Pietro Ziani doge 42°
1209 Infeudazione (dieta di Augusta) dell'Istria al patriarca di
Aquileia.
1210 Patti tra il patriarca Volchero e il Comune di Pirano.
TS 1213-1230 Corrado Tarsot da Cividale
+RO+ 1216-1227 Onorio III Cencio Savelli
°AQ° 1218-1251 Berthold von Andechs
*IM* 1220-1250 Federico II di Svevia
-GO- 1220-1258 Mainardo III e Alberto I
1220-1230 Tra le diverse città costiere dell'Istria si stringe una
vera lega, l' «universitas Histriae» con a capo un veneziano, Tommaso Zeno
1223 Arbitrato tra Comune e Ugo di Duino - Bonomo documento VIII
+RO+ 1227-1241 Gregorio IX Ugolino dei Conti di Segni
:VE: 1229-1249 Jacopo Tiepolo doge 43 °
TS 1231-1233 Leonardo
TS 1233-1254 Volrico de Portis da Cividale
TS 1233-1238 Giovanni, nominato dall'Imperatore
1223 Patti tra Venezia e
Trieste
1238 A conclusione di lunga ribellione, pace tra Patriarca e
Capodistria che gli si sottomette, salvi i diritti acquisiti dai veneziani sul
porto.
+RO+ 1241 Celestino IV Goffredo Castiglioni
1241 Conversione di due
pranzi in somma di denari - Bonomo documento IX
1242 Pola ribelle ai veneziani viene messa a ferro e fuoco.
Sconfitta, subisce l'anno seguente umiliante pace a Rialto.
+RO+ 1243-1254 Innocenzo IV Sinibaldo Fieschi
:VE: 1249-1253 Marino Morosini doge 44°
*IM* 1250-1254 Corrado IV
°AQ° 1251-1269 Gregorio di Montelongo
:VE: 1253-1268 Ranieri Zeno doge 45°
1253 Vendita di privilegi al Comune - Bonomo documento X
+RO+ 1254-1261 Alessandro IV Rainaldo dei Conti di Segni
TS 1254-1281 Arlongo da Voitsberg
1254 Trieste ha un podestà veneziano. Guerra tra Capodistria e
Trieste, Venezia interviene e fa da mediatrice.
TS 1255 Guarnerio da Cuccagna da Cividale
-GO- 1258-1304 Mainardo IV e Alberto II
+RO+ 1261-1264 Urbano IV Giacomo Pantaleon
1264 Valle si dà ai veneziani, il Patriarca la recupera.
+RO+ 1265-1268 Clemente IV Guido di Folquois
1266 Rovigno si dà ai veneziani, per breve." 7
1267 Montona si dà ai veneziani, per breve. Capodistria muove contro
Parenzo per assoggettarla, Patriarca Gregorio di Montelongo catturato dalle
masnade del conte di Gorizia e imprigionato. Si rafforza grandemente il potere
del Conte di Gorizia in Istria. Intimorita, Parenzo, prima tra le città
istriane, si dà ai veneziani definitivamente e passa sotto la sua signoria.
*IM* 1268 Corradino di Svevia
:VE: 1268-1275 Lorenzo Tiepolo doge 46°
1268 L'Istria tumultua. Capodistria piglia e distrugge il castello di
Montecavo, assalta Castelvenere e Rovigno. I veneziani intervengono, pigliano
Montecavo e lo restaurano, pigliano Capodistria.
1269-1273 Anarchia e crisi gravissima del Patriarcato di Aquileia,
dopo la morte di Gregorioe prima dell' elezione di Raimondo della Torre. L'
influenza veneziana in Istria si rafforza per il timore dei liberi comuni di
cadere nelle mani dei conti goriziani.
1269 Umago si dà ai veneziani.
1270 Cittanova si dà ai veneziani.
+RO+ 1271-1276 Gregorio X Tebaldo Visconti
1271 San Lorenzo si dà ai
veneziani.
*IM* 1273-1291 Rodolfo I (IV) d'Asburgo
°AQ° 1273-1298 Raimondo della Torre
1273 Capodistria si
dà ai veneziani, senza effetto.1 24
1274 Guerra in Istria fra
Patriarca e veneziani; scissure fra Patriarca e conte Alberto d'Istria; pace e
concordanza. Capodistria e Trieste si ribellano ai veneziani.
:VE: 1275-1280 Jacopo Contarini doge 47°
1275 Patriarca Raimondo e conte Alberto riconciliati si collegano
contro Capodistria. 126
+RO+ 1276 Innocenzo V Pietro di Champigny
+RO+ 1276 Adriano V Ottobono Fieschi
+RO+ 1276-1277 Giovanni XX detto XXI Pier Giuliani
1276 Le città istriane ad istigazione dei veneziani tentennano contro
il Patriarca, Montona riconosce il Patriarca, Pola lo ripudia, il Patriarca
tenta inutilmente di prender Pola. 127
+RO+ 1277-1280 Niccolò III Gian Gaetano Orsini
1277 Novelle rotture fra Patriarca e conte Alberto e novella pace.
Patriarca Raimondo prepara spedizione nell'Istria tumultuante, per le nomine di
Podestà che vuol far da sé.
1278 Lega tra Patriarca e conte Alberto per sottomettere l'Istria
patriarchina. Breve guerra, il Patriarca trasporta la sua corte in Albona e
Pietrapelosa. Capodistria ostile al Patriarca, si collega col conte Alberto,
collegata cogli Isolani tenta pigliare Parenzo. Capodistria sceglie a podestà il
conte Alberto, che si collega al Patriarca, fa pace coi veneziani, abbandona
Capodistria che fa da sé. Il Conte recupera Capodistria, assalta San Lorenzo,
Parenzo e Montona. I veneziani assaltano e pigliano Capodistria, atterrano le
mura da Porta San Martino a Porta Bossedraga, costruiscono il Castel Leone.
Montona si dà ai veneziani.
1279 Patriarca Raimondo assalta Pirano, viene a componimento. I
veneziani vengono all' assalto di Trieste, il Patriarca la soccorre. L' Istria
vuol darsi ai veneziani, conte Alberto restituisce a questi San Lorenzo (per
breve) e fa pace.
:VE: 1280-1289 Giovanni Dandolo doge 48°
1280 Guerra fra Patriarca e
veneziani per l'Istria.
+RO+ 1281-1285 Martino II detto IV Simone de Brie o Mompiti
TS 1281-1285 Ulvino de Portis
1282 Scomunica del Patriarca contro gli usurpatori delle terre
patriarchine. Isola e San Lorenzo si dànno ai veneziani. Discordie tra Patriarca
e conte Alberto, composte da Mainardo di Gorizia e da Gherardo da Camino. I
veneziani assaltano Trieste. Pace tra veneziani, Patriarca, Conte d'Istria e
Trieste.
1282 Trieste consegna al vescovo Ulvino il castello di Montecavo, il
Vescovo promette di consegnarlo al Capitolo.
1283 Pirano si dà ai
veneziani. Patriarca Raimondo fa lega con il Conte d'Istria, con Trieste e
Muggia, coi padovani, coi trevisani contro i veneziani. Il Conte d'Istria
capitano generale.
Capodistria presa. Trieste presa dai veneziani, fa pace umiliante, atterra le
mura verso mare, dà ostaggi, paga i danni e consegna le macchine di guerra per
venire abbruciate sulla piazza di San Marco. Rovigno si dà a Venezia. La «guerra
Triesti» (Vergottini pag. 122 nota 27) continuerà fino al 1291, con
un'interruzione 1285-87.
1284 I veneziani pigliano
l'isola alla foce del Timavo che era bocca del porto, costruiscono fortilizio
cogli avanzi di antica lanterna, ne cangiano il nome da Belguardo in Belforte.
1284 (31 ottobre).
Creazione del Ducato d'oro veneziano.
TS 1285 Giacomo da Cividale, non confermato
TS 1285-1299 Brissa di Toppo
1285 Il Patriarca, i veneziani, il Conte d'Istria e Trieste fanno
pace, che non dura, ed è causa di nuove questioni.
1286 Nuove trattative di pace. Compromesso in giudici arbitri.
1287 Istriani e triestini si ribellano ai veneziani, ritornano al
Patriarca. I veneziani ripigliano Capodistria. L'esercito del Patriarca muove
verso Trieste, poi verso Capodistria, e verso Montecavo che è preso; manca di
viveri, retrocede. I veneziani ripigliano l'offesa, pigliano Montecavo, battono
i patriarchini. Trieste resiste all'assedio dei veneti. Muggia presa (29
maggio).
+RO+ 1288-1292 Niccolò IV Girolamo Masci
1288 Muggia presa dai
veneziani, si dedica a loro, ripudiando il Patriarca. Papa Nicolò IV esorta
i veneziani a non molestare il Patriarca per le sue ragioni in Istria.
:VE: 1289-1311 Pietro Gradenigo doge 49°
1289 Il Patriarca torna a tentare la sorte delle armi, in colleganza al Conte
d'Istria, raduna in Monfalcone 50.000 pedoni e 5.000 cavalli, e viene
all'impresa del forte di Romagna, da cui i veneziani assediano Trieste. Il Conte
abbandona il Patriarca, il Patriarca si ritira. Torna all'assalto, i veneziani
sono costretti ad abbandonare il castello loro, Trieste è liberata. Tregua fra
Patriarca, triestini e veneziani. Compromesso mediato da papa Nicolò IV.
Trattative.
1290 Altre trattative, cui partecipa il Conte d'Istria. Nuove
rotture, i veneziani sono battuti dal
Patriarca, dal Conte d'Istria e dai triestini, capitanati dal Conte d'Istria.
1291 (11 novembre, Treviso) pace tra veneziani da una parte e
Patriarca Raimondo, conte Alberto «et comune et homines Tergesti» dall'altra,
sotto l'arbitrato e la promessa mediazione, remunerata in caso di lite, di papa
Nicolò IV. I veneziani dànno una prima base giuridica globalmente a tutte le
loro occupazioni istriane. Trieste si emancipa, ed istituisce Consiglio di 180 a
reggere il Comune; viene a lei restituito Montecavo per darlo ai Vescovi.
1291 Enrico, conte di Gorizia podestà a Trieste.
*IM* 1292-1298 Adolfo di Nassau
+RO+ 1294 Celestino V Pietro da Morone
+RO+ 1294-1303 Bonifacio VIII Benedetto Caetani
1295 Concessione di diritti al Comune - Bonomo documento XII
1295 Il Comune di Trieste acquista temporaneamente durante la vita
del vescovo Brissa di Toppo «officium gastaldionis, cruentam et lividam et
regalia».
1295 Concessione del Castello di Moccò al Comune - Bonomo documento
XI
1295 Bolla di conferma di diritti sul vino - Bonomo documento XIII
1296 Scambio di decime tra Muggia e San Canziano - Bonomo documento
XIV
1296-1307 Tentativi del
Patriarca di ottenere dal Papa, giusta gli accordi di Treviso, sentenze
arbitrali per salvaguardare i suoi diritti in Istria.
*IM* 1298-1308 Alberto I d'Asburgo
°AQ° 1299-1301 Pietro Gera degli Egizi
TS 1299-1300 Giovanni della Torre
TS 1300-1302 Enrico Rapicio
°AQ° 1302-1315 Ottobono Robari
TS 1302-1320 Rodolfo Pedrazzani da Robecco
+RO+ 1303-1304 Benedetto IV detto XI Nicola Boccasini
Conferma di strumenti dal Vescovo Rodolfo - Bonomo doc. XV
-GO- 1304-1323 Enrico II e Alberto IV
+RO+ 1305-1314 Clemente V Bertrando de Got o Gotone
1307 (12 ottobre) Cessione
perpetua a Venezia di tutti i diritti e le giurisdizioni del Patriarca
nell'Istria occupata dai Veneziani. L'Istria ora divisa in tre domini:
veneziano, patriarchino e goriziano.
*IM* 1308-1313 Arrigo VII di Lussemburgo
:VE: 1311-1312 Marino Zorzi doge 50°
1311-1313 Enrico, conte di
Gorizia podestà a Trieste.
:VE: 1312-1327 Giovanni Soranzo doge 51°
1313 Il doge di Venezia
protesta contro il Comune di Trieste per le ambagi di quest'ultimo nel prestar
giuramento di fedeltà. La famiglia Ranfi a Trieste viene sterminata.
*IM* 1314-1347 Ludovico IV il Bavaro
*IM* 1314-1322 Federico III d'Asburgo, competitore
1314 Spettanze della
Chiesa Triestina sul feudo Sipar - Bonomo documento XVI
+RO+ 1316-1334 Giovanni XXII Giacomo Caturcense d'Euse
°AQ° 1316-1318 Gastone della Torre
°AQ° 1319-1332 Pagano della Torre
1320, 1322 Enrico, conte di Gorizia podestà a Trieste.
1329 Sul feudo Sipar della Chiesa Triestina - Bonomo documento XVII
1333 Investitura di feudi in
Istria da parte di Pace da Vedano - Bonomo documento XVIII.
Sintesi "il
Duecento a Trieste".
La storia di Trieste nel Duecento risente naturalmente della sua posizione
geografica. Affacciata sull'Adriatico essa è oppressa alle spalle dal dilagare
di marchesi, baroni e castellani tedeschi. Essi si disseminano sul Carso
devastato dai Magiari, spingendo due tentacoli sul mare, l'uno al castello di
San Servolo (a oriente oltre Zaule), l'altro a quello di Duino. Trieste è
baluardo di italianità in un nuovo mondo estraneo, esotico ed eterogeneo che si
forma alle spalle della città isolata. E' un baluardo che vuole però mantenere
la sua indipendenza da Venezia, che sempre più l'accerchia risalendo le coste
adriatiche. Cerca così l'appoggio del Patriarca, cui è legata per il vincolo di
vassallaggio del suo Vescovo.
Patriarcato e parlamento friulano, come l'episcopato e il comune triestino sono
realtà politiche ed economiche italiane nel XIII secolo unite e assimilate nella
lotta per mantenere la propria integrità territoriale e culturale, difendendosi
da tedeschi e ungheresi a nordest, dai veneziani a sudovest.
Attorno al 1400 entrambe perderanno molto della loro identità: Trieste aggregata
all'Austria nel 1382, il Patriarcato conquistato dei veneziani nel 1420. I
secoli di dominazione successiva tenderanno, anche per cosciente proposito dei
dominatori, a far cadere in oblio e a cancellare le tracce della complessa,
tenace, a volte gloriosa vitalità civile di queste due organizzazioni statali
del Duecento italiano ai confini nordorientali. Il loro destino si diversificò
poiché il Friuli venne assorbito, si fuse e divenne parte integrante di un suo
remoto rampollo, lo Stato veneziano. Trieste invece continuò, in modo nuovo ma
con immutato vigore, la sua più che mai solitaria battaglia per mantenere
integrità culturale, lingua italiana, autonomia comunale, immediato e
indipendente rapporto con il Sovrano.
(G.B.)
Giulio Bernardi
La "monetazione della zecca di Trieste" consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l'inizio del quattordicesimo secolo. Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un'appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia. Perché in questa città allora così piccola (4800 abitanti) si sentì il bisogno di fabbricare moneta propria? Inoltre, la gelosia con cui i vescovi di Trieste conservarono il loro diritto di zecca, il fatto che esso venisse esercitato (dal 1253 al 1257) dal Comune che lo deteneva in pegno, il prolungarsi nel tempo (fino all'inizio del Trecento) della continuità di emissioni, la grande quantità di pezzi emessi che si arguisce dalle numerose varianti di conio, sono elementi che concordano nel dimostrare che la monetazione triestina fu, in ambito locale, economicamente importante. In numerosi documenti dell'epoca troviamo la memoria che, anche dopo che Trieste ebbe moneta propria, qui le monete allogene continuarono a circolare insieme a questa e quasi tutti i ripostigli rinvenuti ne danno conferma. Nell'urna di San Servolo, riaperta in occasione della solenne ricognizione del 1986, sono state trovate monete duecentesche, ma nessuna di esse era triestina. Le emissioni monetarie di Aquileia, Trieste, Latisana e Lienz danno l'impressione di essere prodotte dalle stesse mani, certamente con le medesime tecniche. I rapporti politici tra i patriarchi di Aquileia e i vescovi di Trieste non inducono a pensare che, per questi ultimi, si trattasse di imitazioni non autorizzate o illegali. In questo senso certamente non danno spazio a congetture le analisi ponderali e qualitative delle serie parallele. La somiglianza dei tipi fu già osservata dagli studiosi del passato, anche se essi non ne trassero tutte le conseguenze. La fabbricazione delle monete, eseguita da artigiani specializzati riuniti in confraternite, era una cosa distinta dalla loro emissione, che veniva «preconizzata» cioè bandita a viva voce dal «praeconius» nelle pubbliche piazze, per conto dell'autorità. Ponendo attenzione sull'interazione di questi due momenti - fabbricazione ed emissione - ci accorgeremo che è molto probabile che le confraternite di zecchieri avessero una parte determinante nel promuovere le emissioni di monete, nello stesso modo che, oggi, una fabbrica di medaglie stimola i committenti a fare ordinativi per incrementare la sua produzione. Riguardo la monetazione duecentesca della zona che ci interessa, a nordest della Repubblica di Venezia, sappiamo (da documenti coevi e da quelli successivi che possiamo ritenere utili anche per il periodo che consideriamo, che essa non veniva gestita direttamente dall'autorità emittente, bensì era appaltata a confraternite di artigiani. Chi otteneva l'appalto corrispondeva al signore un utile percentuale. Ai fabbricanti venivano però tassativamente imposte le qualità intrinseche e anche quelle artistiche delle monete, sottoposte a regolari e rigorosi controlli. Tutti i problemi relativi all'approvvigionamento del metallo, alla manodopera, all'organizzazione della produzione erano a carico dei fabbricanti. L'autorità emittente ne traeva il vantaggio di poter usare numerario proprio e di avere un immediato controllo sul patrimonio liquido dei sudditi: ciò facilitava o meglio rendeva possibile l'esazione delle tasse. Un consistente vantaggio per il committente era la percentuale del coniato che i fabbricanti erano tenuti a versare al sovrano. Non indifferente era il beneficio legato al prestigio ed alla buona fama che potevano derivare da prodotti di qualità e di gradevole aspetto, adatti a tramandare nei secoli la memoria di un nome e di un sistema politico. Assai più immediato e capitale era l'interesse del fabbricatore, perché dalla decisione del sovrano di emettere monete dipendeva tutta la sua vita economica. È facile dunque immaginare quanto le confraternite di zecchieri si dessero da fare per convincere le massime gerarchie politiche della convenienza di emettere monete. Dove mancava o era debole la potenza economica e politica per imporle e diffonderle in ampie province, era necessario sopperire con la bontà del titolo e la bellezza e l'originalità del conio. È probabilmente questo il caso di Trieste. Il numero complessivo di monete triestine a me note è di poco superiore a 1600 (ho potuto averne le fotografie di 1457). Forse qualche centinaio di esemplari che la mia indagine non ha raggiunto sono ancora sparsi nel mondo. Il totale delle monete superstiti è probabilmente inferiore a duemila pezzi. Il numero dei coni identificati (237 d'incudine e 375 di martello) lascia supporre un volume di produzione complessivo di qualche milione di pezzi. E' dunque sopravvissuto, dopo sette secoli, meno di un millesimo delle monete emesse. "Scritti sulle monete triestine". Già nel Seicento gli storici si occuparono di monete medioevali triestine: il canonico Vincenzo Scussa (1620-1702), nella sua «Storia Cronografica di Trieste» del 1697 vi fa cenno. L'anno seguente il carmelitano scalzo Padre Ireneo della Croce (1625-1713), nella sua «Storia di Trieste», scrive di denari triestini, dandone perla prima volta riproduzione grafica. Nell'edizione del 1881, in cui l'opera di Ireneo della Croce venne pubblicata nella suainterezza, leggiamo ancora di denari triestini nel terzo volume. Ludovico Muratori nella sua ventisettesima dissertazione del 1739 (pag. 715-717nell' edizione del 1774), riportata anche dall' Argelati (I pag. 95-96) descrive nove denari triestini. Il Padre F. Bernardus M. de Rubeis nella sua prima dissertazione «de Nummis Patriarcharum Aquileiensium» (Venezia 1747, anche in Argelati 1750) pubblica a pag. 101 e sulla tavola 5 un denaro di Volrico (VM), con la nota che si trattava di soldo da dodici piccoli. Giangiuseppe Liruti di Villafredda nella sua dissertazione «Della moneta propria, e forastiera ch'ebbe corso nel Ducato di Friuli dalla decadenza dell'Imperio Romano sino al secoloXV», pubblicata a Venezia nel 1749, e l'anno dopo nel II volume dell' Argelati, dedica il capitolo XXIII (pag. 189) alla Moneta di Trieste.
Nella zecca, i coni della zecca triestina, come quelli di Aquileia, appaiono fabbricati da due categorie di operai: i maestri e gli allievi. I primi si distinguono per esattezza di tutti i particolari, per la particolare grazia e armonia del disegno, per la gradevolezza e la nitidezza dei contorni. I secondi danno l'impressione di minore esattezza, di opera maldestra e frettolosa. Le differenze sono tuttavia assai ridotte perché ambedue le categorie di artisti adoperano, nel fabbricare i coni, gli stessi punzoni che, in certi casi (denaro di Arlongo con Tempio e Santo AT) non si limitano a singoli particolari, ma comprendono intere figure. La somiglianza di ogni particolare con le parallele monete patriarcali conferma la fabbricazione dei coni delle due zecche dalle stesse mani. Come più tardi codificato da Cellini, nella zecca si preferiva fare ricorso, per fabbricare i coni, a punzoni della massima esattezza, piuttosto che al cesello. Si rendevano in questo modo particolarmente difficili le imitazioni, perché a monte della fabbricazione dei coni occorreva tutta un'attrezzatura professionale, sorretta da grande esperienza specifica. Nessun conio fu rimpiazzato finché era ancora integro e adoperabile. Quando, per l'uso, era diventato inutilizzabile, veniva distrutto e sostituito. (G.B.)
(Fig. 1) Modello della città di Trieste
Dino Cafagna
Qual era la composizione urbanistica della Trieste medievale?
C’è un affresco dell’abside di San Giusto che raffigura il Santo con il modello della città di Trieste in mano. Questo modello rappresenta in assoluto la prima raffigurazione di Trieste. Infatti la più importante testimonianza iconografica tramandataci, nonché la prima e quindi la più antica raffigurazione di Trieste, è quella fornita da un affresco della cattedrale di S. Giusto. Databile attorno al 1370, è attribuito al Secondo Maestro di San Giusto e rappresenta il Santo Patrono con in mano il modellino della città circondata da possenti mura merlate (fig.1). Tale rappresentazione faceva parte di un ciclo di affreschi, che in origine ornavano l'abside della navata di San Giusto, ricoprendo un analogo ciclo duecentesco (fatto quindi dal Primo Maestro di San Giusto). Questi furono strappati e collocati poi su pannello nella cappella di San Giovanni (o Battistero), dove oggi sono custoditi e visibili.
(Fig. 2)
Pur essendo un modellino e nonostante la prospettiva molto approssimativa, che
dava maggior risalto agli edifici principali senza badare alle reali
proporzioni, l'autore dimostra alla fine una particolare cura al dettaglio.
Sono, infatti, ben riconoscibili in alto (fig. 2): gli stipiti del portone di
entrata di S. Giusto con la stele della famiglia romana dei Barbi, il rosone
della facciata, gli archetti rampanti sotto le falde del tetto, l’edicola del
campanile con la statua di S. Giusto, la chiesa di San Michele al Carnale (1328)
con l’entrata alla cripta, il Monastero delle Monache della Cella (1265), il
Palatium episcopatus o vescovado (1187), il campanile con il tetto appuntito,
ecc. Il tutto corrisponde a una descrizione urbanistica ancora valida ai giorni
nostri.
In questo dipinto le antiche mura di Trieste sono dotate di torri (qui son
disegnate dodici), bastioni e porte, e racchiudono la città all'interno di uno
spazio triangolare con vertice in cima al colle e base al mare. L'affresco ci
tramanda anche l'aspetto strutturale delle mura: la gran parte delle torri,
escluse quelle con complessi fortificati sopra le porte, vengono rappresentate
come "scudate", cioè chiuse solo da tre lati. La cortina interna è aperta,
mentre i cammini di ronda, costruiti in pietra, poggiano su archi di sostegno o
contrafforti interni ampi e molto solidi, con la merlatura guelfa a proteggere
il camminamento e i ballatoi.
La presenza di torri quadrate scudate, cioè aperte all’interno, rappresentava
allora il modo più semplice ed elementare per la costruzione di una torre,
facile da costruire ma soprattutto ricostruire in caso di assedio nemico.
Infatti, in caso di parziale distruzione, per esempio dopo un bombardamento da
parte delle catapulte nemiche, diventava facile ricostruirla, con il favore
dell’oscurità della notte, utilizzando le pietre d’arenaria anche delle vicine
case distrutte, dando così la precedenza alla ricostruzione delle mura e delle
torri che rappresentavano in assoluto la prima e più importante difesa civica.
Al contrario la presenza di una torre cilindrica avrebbe reso molto
problematica, per ovvi motivi strutturali, la ricostruzione rapida della torre.
La mancanza poi della parte interna di queste torri, oltre che rendere per ovvi
motivi ancora più facile la ricostruzione del manufatto, permetteva anche di
scoprire subito il nemico che eventualmente fosse riuscito a scavalcare le mura
e si fosse installato in una torre; avvistato facilmente, sarebbe stato subito
catturato.
(Fig. 3) Le tre Torri del Porto e il Palazzo Comunale
L’artista dimostra un’attitudine così realistica da far considerare questa
rappresentazione della città un documento iconografico unico e molto
attendibile. Infatti, anche se gli edifici della parte inferiore dell’affresco
non esistono più, il particolare realismo, dimostrato nella parte superiore, ci
permette di considerare praticamente certo il racconto visivo riguardante le tre
Torri del Porto e il Palazzo Comunale (fig. 3). Ovviamente non è disegnato il
castello di S. Giusto, la cui costruzione inizierà appena nel 1470.
Il fronte del porto - lato mare – venne infatti munito di un poderoso sistema
difensivo. In un tratto così breve s’innalzavano ben tre possenti torri
fortificate, la cui funzione era prevalentemente quella di difesa di una zona
particolarmente vitale per l'economia cittadina: il porto. Esse, inoltre,
rappresentavano un colpo d’occhio di grande effetto per chi giungeva in città
via mare.
Esse erano:
• a sinistra: la Torre della Beccheria;
• quella di mezzo o centrale: Torre del Porto o torre del Mandracchio, con
l’apertura a mare;
• a destra: la torre Fradella o della Confraternita.
(Fig. 4) Sigillo Trecentesco di Trieste
Per la potenza, l'importanza e la notorietà, le tre torri vennero utilizzate,
come immagine stilizzata, assieme all’alabarda, quale Simbolo (oggi si direbbe
“logo”) della città stessa: il Sigillo Trecentesco di Trieste (fig. 4).
Infatti nel sigillo trecentesco della città sono rappresentate, in forma
“stilizzata”, le tre torri con porta (Beccheria-Porto-Fradella). La Torre del
Porto appare più alta delle altre due, i merli sono alla guelfa, le porte
chiuse. Il disegno ai lati della torre di due alabarde vuole rafforzare il
significato simbolico del sigillo.
(Fig. 3) Le tre Torri del Porto e il Palazzo Comunale
Dietro alle tre torri del porto s’intravede (fig. 3) il primo palazzo
duecentesco del municipio o del comune (palacium comunis), nato
dall’emancipazione della città dal dominio vescovile iniziata nel 1252 e
completata, con la cessione al Comune di tutti i diritti sulla città, nel 1295 (Kandler,
Storia del Consiglio). In quell’anno la città sentì pressante il desiderio di
avere un proprio Palazzo Comunale e di reggersi da sé con propri Statuti.
La sua struttura la conosciamo proprio dall'affresco trecentesco nella
cattedrale dì S. Giusto; sappiamo che venne costruito in due tempi, tant’è che
in documenti antichi si trovano citati un palazzo “vecchio” e un palazzo
“nuovo”, a sottolinearne la diversa epoca di costruzione. L'edificio a sinistra
della torre, infatti, rappresenta la parte vecchia, duecentesca, del palazzo,
cioè costruito attorno al 1250, di stile romanico, con monofore ad arco a tutto
sesto, cioè finestre a semicerchio a una sola apertura di luce; in quello di
destra, più nuovo, finito all’inizio del '300, si caratterizza per le eleganti
bifore gotiche, ad arco acuto.
Nel 1295, appena acquistata la piena autonomia, fu alzata al fianco del primo
edificio una torre, autoritario simbolo del Libero Comune di Trieste, con un
orologio, una loggia e la campana dell’“arrengo” che serviva a richiamare i
patrizi alle riunioni del Consiglio comunale. In seguito vennero aggiunte anche
due figure bronzee che scandivano le ore e che furono soprannominati del popolo,
per il loro colore, "i Mori di piazza".
(Fig. 5). Il Palazzo Comunale
Il palazzo sorto su un terreno rubato al mare da
progressivi interramenti, aveva la facciata principale rivolta verso l’interno,
sulla Piazza Grande (fig. 5).
Era dotato di porticato e logge date in affitto dal Comune (del resto come si fa
ancora oggi) per ospitare le botteghe di panettieri e merciai. La demolizione
del primo palazzo comunale avvenne nel 1375, quando i veneziani intrapresero la
costruzione del castello Amarina, costruito allora nell’area compresa tra il
Palazzo Comunale e le mura con le tre torri del porto.
Guardando l'attuale palazzo comunale, più familiarmente chiamato “Municipio”,
costruito nel 1875 dall’arch. G. Bruni, colpisce la rassomiglianza che si è
voluto mantenere col primo Palazzo Comunale: la presenza di due corpi
architettonici ai lati di una torre centrale, la presenza di una loggia,
l’orologio e le campane con i due Mori. In pieno irredentismo tale scelta
voleva, ricordando il primitivo palazzo comunale e il Libero Comune, ricordare
in particolare quel periodo di libertà, autonomia, indipendenza, temi da sempre
molto cari ai triestini. (D.C.)
I rapporti fra Trieste e la Serenissima, fin dai primi decenni del X secolo, furono conflittuali, a causa dell'egemonia che quest'ultima esercitava per terra e per mare, non consentendo a Trieste una propria autonomia commerciale. Venezia aveva il suo territorio e i suoi confini sull'Adriatico, e in esso agiva con forte politica, onde controllare le rotte, imponeva le sue regole e i suoi dazi. Un tributo navale che le città istriane pagavano anche a difesa delle incursioni e dalle scorribande dei pirati. Queste regole, Trieste le contravveniva per necessità e per sistema. Ragioni commerciali rendevano intenso il contatto tra le due città, ma Trieste era sfavorita rispetto a Capodistria, da quando Venezia, nel 932 ne aveva fatto di il maggior porto delle sue rotte. La città di Trieste, nel X secolo, troppo piccola per una sua autonomia, riconobbe l'autorità del Sacro Romano Impero, rappresentato in essa dal vescovo, ma dovette accettare anche quella di Venezia. Nella prima metà del X secolo, pur avendo potere politico proprio sul suo territorio, la città era legata a due autorità.
Trieste potrà spingersi sull'Adriatico solamente quando l'Austria gliene darà la possibilità e i mezzi, nel sec. XVIII, con una Venezia ormai avviata verso il declino dopo l'avvento dei Turchi nel Mediterraneo, e per il mutare delle rotte commerciali a seguito delle nuove scoperte geografiche.
(Bibliografia: Nelli Elena Vanzan Marchini, Venezia e Trieste sulle rotte della ricchezza e della paura. Cierre Edizioni, 2016)
La
dedizione
di
Trieste
all'Austria
La
dedizione
all'Austria
del
1382
avviene
a
un
anno
di
distanza da
un'altra
"dedizione"
che
Trieste
aveva
dovuto
giurare,
nel
1381,
al
Patriarca
di
Aquileia a
seguito
della
pace
di
Torino
del
24
agosto.
Quella
all'Austria
si
concretizzò
a
Graz,
in Stiria,
il
30
di
settembre,
inviati
i
rappresentanti
di
Trieste Andelmo
Petazzi,
Antonio
di
Domenico
e
Nicolò
di
Pica,
al
cospetto
del
duca
Leopoldo
III
d'Asburgo.
Dell'atto
si
conserva
un
diploma
presso
la
Cancelleria
austriaca
da
cui
si
evince
che
si
trattò
di una
richiesta
triestina, accolta
dal
duca
quale
difensore
della
città,
dei
suoi
castelli
e
del
suo
distretto,
in
cambio
di "placida oboedientia",
ovvero
l'accettazione
di
sudditanza.
Rodolfo
I,
originario
della
Svizzera, nel Sec.
XIII
si
era
portato
nell'Oesterreich
e
nella
Stiria,
dove
nel
1335,
i
suoi
discendenti
avevano
esteso
i
loro
possessi
alla
Carinzia
e
alla
Carniola. Nel
1350
Alberto II
duca
d'Austria
aveva
tentato
di
spingersi
a
sud,
fino
alla
Carnia,
a
Gemona
a
Venzone,
ma
era
stato
costretto
a
ripiegare.
Nel
1366
Ugo
VI
di
Duino,
fino
allora
vassallo
del
Patriarca,
era
passato
al
più
potente
duca
d'Austria;
e quest'ultimo,
in
questo
modo,
era
di
fatto
divenuto
confinante
con
Trieste.
Nel
1374
gli
Asburgo
ricevettero
per
successione
i
possedimenti
di
Alberto IV
conte
di
Gorizia.
A
questo
punto Trieste
si
trovò
accerchiata
dagli
austriaci
e,
tradizionalmente
avversa
a
Venezia,
con un
Patriarcato
indebolito
dalle
lotte
interne
delle
città
friulane.
Nel
1369,
quando
Trieste
venne
assediata
dai
veneziani
e
stava
per
capitolare, aveva chiesto
aiuto
a
Leopoldo
III,
ricevendolo contro
una
piena
e
formale
"dedizione", motivata
anche
da
un
inesistente
diritto
ereditario
asburgico.
Quando
nello
scontro
furono
i
veneziani
ad
avere
la
meglio,
Leopoldo
concluse
con
essi
la
pace
rinunciando
ad
ogni
suo
diritto
su
Trieste
e
ricevette
dalla
Serenissima
75.000
fiorini
d'oro.
Nel
1386,
a
Leopoldo III
succedette Alberto IV.
Con
l'Atto
di
Dedizione, Trieste
manterrà
una completa
autonomia
di
governo
con
il
potere
legislativo
e
un
Capitano
(succeduto
poi
dal
Podestà),
e
non
verrà aggregata
a
nessuna
delle provincie
austriache,
ma
non
deve
venir
meno
al
giuramento
di
fedeltà
ecclesiastico prestato
al
Patriarca
d'Aquileia.
/
A. Doratti
La città nel 1731, dopo il primo vero censimento effettuato, conta 4.144 abitanti, compresi 108 ebrei e 301 forestieri residenti a Trieste.
L'aspetto politico e
sociale della città è ancora legato alla tradizione di un passato
municipalistico. Gli statuti del 1550 dureranno con progressivi mutamenti e
limitazioni fino al 1812.
Sono sempre le Casade che eleggono i giudici ed i rettori che rappresentano la
massima autorità politica della città; nominano i vicedomini, scelgono il
giudice del maleficio (penale) e quello del civile, provenienti sempre da città
più grandi nelle quali vi sono centri di studi giuridici; nominano i camerati
(ragionieri del comune) e il fonti-caro al quale è affidato l'approvvigionamento
del grano. Solamente la nomina del capitano è affidata all'autorità imperiale.
La legge degli Statuti è molto pesante, sia per reati di assassinio, furto o
rapina che per i reati più comuni.
L'attività economica si basa principalmente sulla produzione e il commercio del sale,
che viene poi trasportato nell'interno, nonostante la concorrenza dei veneti e
dei muggesani, che a volte fa scoppiare aspre contese (specie per il possesso
della salina di Zaule).
Le campagne intorno sono tutte coltivate a orti, vigneti, frutteti e oliveti;
questi prodotti vengono tutti consumati in città.
La carne di maggior consumo è quella di maiale poiché il manzo è riservato ai
ceti più abbienti ed è molto più costoso. Prosperosa è la pesca.
I cittadini depositano spesso il letame sulla pubblica via e questo dà luogo a
numerose e ricorrenti malattie infettive (vaiolo e colera).
La lotta tra il potere imperiale e la libertà civica comincia paradossalmente
nel momento in cui l'Austria dà avvio a quella profonda trasformazione economica
che porterà a livelli di emporio internazionale.
Lo sviluppo urbanistico di Trieste tra Sette e Ottocento
A. Doratti
All'inizio del XVIII secolo, ammesso che si possa
osservarla dall'alto, la città si presenta sotto forma di cuore, con la punta
rivolta verso la cattedrale di S. Giusto. Tutta racchiusa, come una noce, nelle
forti e possenti mura grigie e turrite; con in alto il castello, vano
spauracchio dei turchi e con il mare che le fa da specchio. Di sotto il
porticciolo interno, costruito nel 1620 dal goriziano Giacomo Vintana e difeso
dal molo della Bandiera; nell'interno vi è un pullulare di barche con lunghe
antenne svettanti tra l'intrico del sartiame. Dopo il tramonto, quando vengono
chiuse le porte della città, una robustissima catena viene tesa tra i due moli
(quello della Bandiera e quello a gomito).
Nella parte bassa tra il Mandracchio e la porta di Riborgo, si stende la plaga
delle saline. Il principale collettore è il Canal Grande, o Maestro, che riceve
l'acqua dal torrente S. Pelagio il quale scende dalla sorgente di S. Giovanni,
anticamente sfruttata dai romani e che si congiunge al torrente delle
Sexfontanis. Altra fonte d'acqua dolce indispensabile, alimenta il torrente di
Colonia che si incanala nella Valdirif (Valdirivo) e che muove l'unica ruota del
Mulino piccolo, ingrossato dalla fonte di S. Nicoforo, già detta della Zonta.
Altra acqua ancora scorre giù da Romagna e s'incanala nel fossato detto della
Jepa.
Il Canale del Vino o Canal Piccolo, dove si inoltrano le imbarcazioni da carico,
taglia l'ultimo tratto delle saline all'esterno delle mura di Malcanton e si
spinge dentro la città attraverso la Portizza. Dunque il commercio del vino si
sviluppa nella Piazza Piccola, non lontano dalla chiesa della Madonna del
Rosario. Un ponte sul canale assicura il passaggio lungo il pomerio interno alle
mura.
Davanti al Mandracchio si apre la porta della torre del porto, detta anche
dell'Orologio. Sotto l'arcata della torre un cesendolo illumina una pala della
Beata Vergine con i Santi Giusto e Sergio, che sarà sostituita un secolo più
tardi con un'altra immagine venerata della Madonna, detta Madonna del porto.
Qui, ogni sera, dopo il colpo di cannone che metteva fine alla giornata di
lavoro, i marinai pregano e recitano il rosario tutti riuniti.
Due automi di bronzo segnano i quarti e le ore dell'Orologio, che ha due
quadranti uno interno alla piazza e l' altro esterno, sul porticciolo. Il
popolino ha dato loro un nome – Michez e Jachez – che durerà nel tempo e forse
trae origine dal ricordo di due severi giudici che nel Medioevo facevano leggere
al banditore le loro terribili sentenze a suono di campana. Sul molo Bandiera si
erige maestosa la torre della Beccheria, dall'altra parte invece domina la torre
Fradella.
Dunque le torri del porto sono tre. La cortina prosegue lungo la spiaggia dove
ha sede lo squero della Confraternita di S. Nicolò dei Marinai, dal quale
prenderà nome la prossima torre. La pescheria, che prima si trovava sulla riva
del Mandracchio, si è spostata verso Cavana da dove l'accesso è facilitato.
Oltre ancora troviamo il Fortino, un' opera di difesa posta al gomito delle mura
che da qui salgono verso la porta di Cavana dove si trova un ponte levatoio. La
spiaggia è bassa e frastagliata e riceve le acque del Fontanone; la zona si
presta al ricovero delle barche. Si costruiscono dei bacini coperti da canne di
paglia che vengono denominati cavane.
Nei pressi del Fontanone, alimentato dall'acquedotto romano, vi è un grosso
bastione e più in su il Barbacane o porta di S. Michele. Salendo la valle di S.
Michele, dove vi è una strada, giungiamo alle mura del castello, dove non ci
sono più porte ad eccezione di alcune segrete di sortita per l'uscita eventuale
di pattuglie in caso d'assedio.
Dall'altro lato della città abbiamo varie porte ben difese dopo la porta del
Vino o Portizza, vi è quella delle Saline, quella di Riborgo protetta da due
torri e dal ponte levatoio con le statue protettrici di S. Filippo e di S.
Giacomo. Più in alto un'importante porta s' innalza: è quella di Donota. Poi c'è
la torre–scudo detta Cucherna (di tutte la sola superstite che possiamo ancora
vedere) alla quale venivano appiccati i traditori della patria. Tra questa e il
castello si erge un'ulteriore torre detta delle Monache, proprio perché nel 1369
le Benedettine possedevano una vasta proprietà sotto il castello e lì vi era il
loro convento. Le mura sono ancora quelle restaurate nel 1511 dopo il terribile
terremoto giunto dal Friuli che fece crollare anche le torri del porto.
Fuori dalle mura, la vasta campagna sparse di
casupole è coltivata a orti, vigneti e frutteti e a monte delle saline vi è una
strada che parte da Contovello e porta verso il Friuli e la Carinzia passando
sopra il torrente Roiano. Fuori dalla porta di Riborgo invece la confraternita
di S. Nicolò dei Marinai è patrocinata dal Comune che riconosce benefici ai
marinai inabili, vedove e orfani. S. Nicolò e la sua proprietà finiscono nella
strada che porta a S. Giovanni dove vi è l'ospedale dei lebbrosi, che poi
scomparirà per fare posto alla piazza Carlo Goldoni.
Lungo la strada per Lubiana ci sono le concerie gestite dagli ebrei e la
chiesetta di S. Apollinare con il piccolo cimitero che raccoglie i defunti di
campagna. Il cimitero israelitico invece si trova oltre la porta di Donota, dove
il monte sale verso il castello. Di là dal castello vi sono chiese e cappelle
ricordate poi nei toponimi di piazze e vie successivamente sorte. La riva di
sinistra è denominata strada di S. Pelagio dalla chiesetta romanica posta alle
sorgenti del corso d'acqua nella valle di S. Giovanni, che è tuttora esistente.
Interessante è la zona fuori dalla porta Cavana e la località dei Santissimi
Martiri, dove si adagiano alcune piccole imbarcazioni di pescatori ed il
convento dei padri cappuccini con la chiesa di S. Apollinare, demolita nel 1787.
Di fronte all' odierno palazzo Vicco, sede della curia vescovile, vi è la chiesa
dell'Annunziata e l'ospedale delle donne. A monte la chiesa della Madonna del
Mare con la torre e l'antichissimo cimitero dove si vuole sia stato sepolto S.
Giusto. Importante è anche la chiesa della Beata Vergine del Soccorso, che il
popolo chiama S. Antonio Vecchio nell'odierna piazza Hortis, dove allora sorgeva
il chiostro del convento e subito dietro il cimitero. La chiesa era sede della
confraternita delle Tredise Casade, ossia le famiglie patrizie triestine
chiamate anche con vena canzonatoria dal popolo Confraternita del Moccolo,
poiché i patrizi accompagnavano il Santissimo nelle processioni solenni con una
lunga cappa purpurea, lo spadino e il cero in mano. Infine sulla destra
dell'attuale via Torino, isolato nella campagna sorge il convento di S. Giusto
con l'ospedale per i pellegrini, amministrato dai frati della Misericordia di S.
Giovanni di Dio. Al tempo sei sono le chiese, due gli ospedali e tre i cimiteri
che caratterizzano la zona fuori porta Cavana; lontana ed isolata sulla spiaggia
dell'altro versante vi è la chiesa di S. Andrea, già esistente nel XII secolo e
restaurata poi nel '600. Nel 1735 l' edificio sarà circondato da un cimitero
durante la guerra di secessione polacca, quando molti soldati moriranno nel
lazzaretto di S. Carlo. Trieste, attraverso le stampe documenta lo sviluppo
urbanistico della città dagli inizi del Settecento alla fine dell'Ottocento,
sulla scorta di un importante lavoro di ricerche e di archivio. L'itinerario
lungo due secoli ha visto l'antico borgo di pescatori assurgere a dignità di
emporio e di unico sbocco sul mare dell'impero austroungarico. Da un'immagine di
città rinchiusa gelosamente nella cinta muraria (quindi nelle sue istituzioni,
nelle sue chiese, nella sua vita sociale), per poi documentare con ricchezza ed
esattezza il grande sconvolgimento politico ed economico prodotto da Carlo VI
con la concessione del portofranco (1719). Alla crescita economica si accompagna
inevitabilmente il calo dell'autonomia, sicché Maria Teresa incontra non pochi
ostacoli da parte del patriziato nel suo lungimirante disegno di "fondere il
vecchio e il nuovo".
A. Doratti
Nel primo Ottocento
la città conta ormai 65.000 abitanti, compresi i 5.000 contadini che gravitano
nei dintorni e che giornalmente si riversano in città per vendere verdure,
frutta e ortaggi e per procacciarsi il sostentamento quotidiano. Alcuni sono
piccoli proprietari terrieri, altri affittuari o semplicemente braccianti delle
campagne e sono chiamati con il nome generico di mandrieri. Essi si distinguono
per il pittoresco costume che portano (i giovani formano un corpo militare
speciale detto Milizia Territoriale) con la giubba corta e bordata di vario
colore, grossi bottoni di metallo, calzettoni bianchi e scarpe con fibbia. Hanno
il moschetto ed il loro ornamento più bello è un capello in feltro a larga tesa
alla guisa dei Lanzichenecchi.
Nei sobborghi cerimonie fastose
Anche le donne del contado
si presentano piacevolmente con la testa avvolta di bianco, come le donne della
Carniola, però al posto dell'usuale cuffia imbottita si sostituisce un leggero
fazzoletto. Le maniche della camicia sono di fine lana bianca e le calzature
sono degli stivaletti di pelle nera fortemente chiodati sia nella suola che nel
tacco. La gente è abbastanza alta, con un bel volto e, a differenza di come si
parla in città, usa il dialetto sloveno.
Molto pittoresche nella campagna sono le cerimonie nuziali: già parecchi giorni
prima delle nozze viene mobilitato l'intero vicinato dai paraninfi (coloro che
con bastoni fioriti e nastri bussano alle porte di amici e parenti per
partecipare l'invito a nozze). La sposa in abito nuziale fa il giro delle case
dei parenti già due giorni prima: essa ha il corpetto scuro o rosso, le maniche
e il copricapo bianchi e finemente ricamati e la gonna ricca di nastri, infine
una corona di fiori e nastri intrecciati. La musica e i banchetti accompagnano
sempre i matrimoni e così anche i doni in denaro che vengono messi durante la
cerimonia in un dolce a ciambella detto buzzolà. Anche i più poveri festeggiano
l'evento con banchetti meno ricchi, ma nei quali il vino non manca mai. In città
le spose usano coprire il capo con un velo bianco e i viaggi di nozze non sono
ancora molto di moda. Nel 1833 un panorama della città mostra il borgo teresiano
ormai completato: esso ha inizio nella contrada del Canal Piccolo e prosegue per
piazza della Borsa e lungo la contrada del Corso fino a piazza della Legna (ora
piazza Goldoni).
Nasce il centro moderno
Da qui i confini si
spiegano lungo il torrente che scorre a cielo aperto, proveniente dalla Stranga
vecchia (piazza Garibaldi), attraversato da sette ponti e che giunge fino alla
caserma. Qui una contrada fiancheggia il canale che, dopo un tratto coperto, si
riapre nell'attuale via Ghega. Due dei ponti principali sono uno sulla contrada
della Wauxhall (via Roma) e l'altro sulla contrada del Ponte Nuovo (via Trento).
Sorge una casa pubblica di beneficenza (Pio Istituto dei Poveri) e dalla piazza
del Macello si dà inizio alla contrada del Lazzaretto nuovo che prosegue fino al
torrente Roiano. La strada è fiancheggiata da un porticato aperto verso il mare
dove vi è la corderia Bozzini. Lo strano nome della contrada Wauxhall deriva da
un caffè concerto fondato nel 1786 in via Ghega, nella casa fronteggiante la
contrada che porta questo nome. La contrada della Jeppa (Geppa) si forma là dove
il corso d'acqua delle saline è ormai scomparso. In via Galatti sorge la
contrada della Pesa e nel centro dell'odierna piazza Vittorio Veneto vi è una
fontana che funge da abbeveratoio per quadrupedi. La Posta è sistemata nella
contrada della Caserma (via XXX Ottobre), ma prima si trovava all'imbocco del
Canal Grande; perciò esiste ora anche una riva delle Poste (via Rossini). Dietro
alla Dogana si apre il quartiere Panfili e tra di loro c'è un grande spazio
detto contrada dei Carradori (via Trento). La contrada della Dogana sormonta il
Canal Grande e arriva fino al Corso passando per Ponterosso, mentre via Filzi è
denominata contrada per Vienna.
Le vie longitudinali sono: la contrada del Balderin (via Valdirivo), la contrada
di Carinzia (via Torrebianca), la contrada dei Forni (via Macchiavelli), la
contrada del Canal Grande (via Cassa di Risparmio), la lunga contrada Nuova (via
Mazzini) che va da piazza della Legna al mare, e la contrada S. Nicolò. In
corrispondenza della contrada di Vienna ha inizio la nuova strada commerciale.
In fondo al canale, nel 1849 verrà consacrata la nuova chiesa di S. Antonio
Taumaturgo, patrono del borgo teresiano. In contrada S. Spiridione sorge la
chiesa degli Illirici (serbo-ortodossi). Il campanile di destra dà nome alla
contrada del Campanile, ora via Genova alta, che manterrà tale nome anche quando
si procederà alla demolizione dell'opera per difetti fondazionali.
Ponterosso come la Concorde
Nella piazza Ponterosso
sorge una fontana a tre bocche, è alimentata dall'acquedotto teresiano. La riva
Carciotti prende il nome dal palazzo omonimo, opera prestigiosa del triestino
Matteo Pertsch. Più in là il tempio greco-ortodosso costruito nel 1786 ed
abbellito poi nel 1819 sempre da Pertsch in forme classiche. La contrada
laterale era detta dei Bottai per le numerose botteghe dei bottai, che dopo la
costruzione della chiesa si chiamerà S. Nicolò.
Sta sorgendo inoltre il nuovo borgo franceschino tra la contrada del Corono e
quella del Molin Grande che corre al fianco del ruscello proveniente da S.
Giovanni. La parte superiore è tagliata dalla contrada del Ronco, mentre sulla
contrada del Coroneo è stato allestito un nuovo pubblico lavatoio e un orto
botanico.
Sulla passeggiata dell'Acquedotto (viale XX Settembre) nuovi edifici sorgono nel
borgo Chiozza e nella via Chiozza (via Crispi), terreno donato al Comune da
Carlo Luigi Chiozza, genovese che aveva un saponificio nei pressi del Ponterosso.
Parallele alla spina centrale della contrada Chiozza corrono le contrade del
Farneto (via Ginnastica) e quella del Boschetto (via Slataper), al di là vi è
l'aperta campagna e il terreno della famiglia Conti sul quale nel 1833 sorgerà
l'ospedale Maggiore, progettato da Domenico Corti. Il borgo Maurizio si estende
dalla contrada del Tintore (via Tarabocchia) a quella del Solitario (via
Foschiatti), che raccoglie diverse piccole industrie: dalla fabbrica della
maiolica, alla concia dei pellami, e alla fonderia. Anche la zona della Stranga
Vecchia si va arricchendo di numerosi edifici.
Intorno al Mandracchio ci sono il nuovo teatro comunale e la Borsa, il palazzo
governatoriale, residenza dal 1776 del primo governatore di Trieste, il conte
Zinzendorf.
La piazza Grande è ora più larga con la porta sul Mandracchio, attraverso la
quale i triestini nelle afose sere estive vanno a prendere il fresco sul
lungomare. Sulla piazza dello Squero vecchio, dove sorgeva la Confraternita di
S. Nicolò è stato trasferito il mercato del pesce che durerà sino al 1878, e poi
si sposterà tra la via della Stazione e la riva del Sale, fintantoché nel 1913
verrà eretto l'attuale edificio a forma di chiesa detto S. Maria del Guato. Una
doppia fila di belle ed eleganti case è sorta anche in piazza Giuseppina (piazza
Venezia), molto alte e massicce intervallate dalla contrada della Sanità Nuova
(via Cadorna). La riva del Lazzaretto vecchio (via Diaz) prosegue verso lo
stabilimento contumaciale.
In periferia ancora contrasti
Le zone periferiche di
Chiarbola sono ampiamente coltivate a vigneti, frutteti, giardini e orti; vi è
qualche grossa villa padronale e alcune case rurali. Tra i monumenti più
notevoli vi è la villa di Campo Marzio, meglio conosciuta con il nome di Villa
Murat, per essere passata in possesso alla vedova del vicerè di Napoli. La villa
venne demolita ai giorni nostri per dar spazio ad una pileria di riso che venne
poi abbandonata e bruciata. Un'altra famosa villa è quella di Giovanni Risnich
nell'attuale piazza Carlo Alberto, demolita per far spazio alla via Franca.
L'edificio di Anna Voinovich sta sul primo passeggio di S. Andrea e guarda
dall'alto della costa la spiaggia sottostante. La stupenda costruzione
dell'architetto francese Champion è la villa di Girolamo Bonaparte (villa
Necker). Sul colle, alla fine della contrada della Sanza sta la Villa Economo,
abbellita da quattro colonne e un timpano. Sotto la Sanza di S. Vito le ville
Budigna e de Dolcetti.
È questa la zona dove i ricchi vanno a villeggiare e i poveri coltivano gli orti
e i vigneti che si allineano floridi nei dintorni.
(A.D.)
L'irredentismo
e
la
Grande
guerra
L'aspirazione
dell'Italia
al
completamento
del
disegno
risorgimentale
di
unificazione
nacque
e
si
diffuse
nell'ultimo
terzo
del
XIX
secolo,
come
movimento
politico
mirante
alla
riconquista
delle
"terre
irredente",
ancora
sotto
il
dominio
dell'Impero
d'Austria-Ungheria.
Giuseppe
Garibaldi,
noto
anche
per
i
suoi
proclami
e
messaggi,
già
colto
dalla
paralisi
e
in
punto
di
morte
disse:
«Muoio
nel
dolore
di
non
veder
liberate
Trento
e
Trieste».
Oggetto
della
rivendicazione
irredentista
furono
oltre
alle
regioni
del
Trentino
e
della
Venezia
Giulia,
anche
Fiume
e
la
Dalmazia.
Accanto
alla
corrente
anti-austriaca,
andò
creandosi
una
contrapposizione
alle
popolazioni
slovene
e
croate,
per
le
contese
territoriali,
che
avrebbe
trovato
ampia
adesione
in
epoca
fascista
e
il
suo
massimo
esponente
in
Ruggero
Timeus.
Nel
Regno
d'Italia
sorsero
movimenti
come
l'Associazione
Pro
Italia
Irredenta,
che
in
Trentino
e
nella
Venezia
Giulia
operò
in
clandestinità.
Nella
politica
italiana,
per
tutto
il
periodo
che
precedette
lo
scoppio
della
prima
guerra
mondiale,
al
fine
di
mantenere
dei
buoni
rapporti
con
l’Austria,
prevalse
il
contenere
l’attività
del
movimento
irredentista.
Tra
i
maggiori
esponenti
dell'irredentismo
ci
sono
i
cosiddetti
"Martiri
trentini":
Fabio
Filzi,
Damiano
Chiesa
e
Cesare
Battisti,
tutti
giustiziati
dal
governo
austriaco.
Il
triestino
Guglielmo
Oberdan,
per
aver
ordito
un
attentato
ai
danni
dell'imperatore
Francesco
Giuseppe,
in
visita
a
Trieste,
fu
processato
e
impiccato
il
20
dicembre
1882.
Era
morto
gridando:
«Viva
l'Italia!
Viva
Trieste
italiana!»
Ciò
fece
nuovamente
divampare
le
passioni
risorgimentali:
Carducci
tuonò
contro
Francesco
Giuseppe
appellandolo
«l'Imperatore
degl'impiccati».
Cavallotti
affermò
che
«con
la
salma
del
pallido
martire,
penzola
dal
capestro
l'onore
italiano».
L'irredentismo
triestino
era
sostenuto
dalle
classi
borghesi
e
dalla
colonia
ebraica,
mentre
il
gruppo
etnico
sloveno
costituiva
circa
la
quarta
parte
dell'intera
popolazione.
Dopo
la
perdita
del
Lombardo-Veneto,
che
vide
la
popolazione
italiana
ridotta
a
meno
di
un
milione,
in
parte
simpatizzante
dell’Italia,
la
politica
di
Vienna
mutò
a
favore
degli
slavi.
Questi,
oltre
ad
essere
molto
più
numerosi,
si
erano
dimostrati
più
fidati,
non
avendo
altro
polo
di
riferimento
che
la
Serbia,
troppo
piccola
e
debole
per
essere
ritenuta
una
rivale
dal
grande
impero
austro-ungarico.
In
Istria
e
Dalmazia
la
situazione
delle
comunità
italiane
si
fece
sempre
più
difficile,
sia
per
l'incalzare
delle
masse
slave
che
dalle
campagne
cercava
lavoro
nelle
città,
sia
per
la
politica
discriminatoria
in
atto
da
parte
delle
autorità
governative.
La
politica
del
“divide
et
impera”,
inaugurata
dall'Austria,
aizzava
gli
slavi
contro
gli
italiani
e
gli
incidenti
si
susseguivano
sempre
più
frequenti,
creando
un
vero
e
proprio
conflitto
razziale.
Le
direttive
anti
italiane
del
governo
imperiale
asburgico,
promossero
una
serie
di
misure
repressive
e
discriminatorie
anche
a
danno
degli
italiani
di
Trieste,
come
il
diritto
di
riunione,
di
associazione
e
il
ripetuto
diniego
alla
tanto
desiderata
Università
italiana
triestina.
Gli
strateghi
italiani
consideravano
Trento
e
Trieste
delle
mete
di
secondaria
importanza,
e
maggior
antagonista
dell’Austria
veniva
considerata
la
Francia
che
sbarrava
la
strada
del
Mediterraneo
ad
un’espansione
coloniale.
Gli
irredentisti,
invece,
guardavano
all'Adriatico
come
al
Mare
nostrum,
e
l'Istria
e
la
Dalmazia
territori
da
strappare
all'Austria.
Quando
nel
maggio
1913
Serbi
e
Montenegrini
invasero
l’Albania,
e
l'Austria
minacciò
una
spedizione
punitiva
per
cacciarli,
l’allora
ministro
degli
Esteri
del
Regno
d’Italia,
Antonino
Paternò
Castello,
marchese
di
San
Giuliano,
nel
timore
che
Vienna
poi
si
accaparrasse
quella
terra,
caldeggiò
che
l'Italia
partecipasse
alla
spedizione,
ma
Giolitti
bocciò
il
progetto,
motivando
che
ci
avrebbe
legati
ulteriormente
all'Austria.
Tutto
si
risolse
con
una
pressione
diplomatica
delle
due
Potenze
che
indusse
gl'invasori
a
ritirarsi.
Due
mesi
dopo,
la
Bulgaria
attaccò
di
sorpresa
la
Serbia
e
la
Grecia;
pochi
giorni
dopo
a
Trieste
scoppiarono
gravi
scontri
fra
sloveni
e
italiani,
e
la
polizia
austriaca
intervenne
solo
su
questi
ultimi.
In
risposta,
gli
studenti
di
Roma
e
Napoli
assalirono
l'Ambasciata
e
il
Consolato
austriaci.
Da
lì
a
poco
sarebbero
avvenuti
i
tragici
fatti
di
Sarajevo
di
cui
la
Serbia
sarebbe
stata
soltanto
il
pretesto
di
un
più
vasto
conflitto
d'interessi
economici,
politici
e
ideologici.
Per
l’Italia,
una
rottura
con
l’Austria
avrebbe
significato
anche
una
rottura
con
la
potente
Germania
e
avrebbe
precluso
quei
“compensi”
previsti
dal
trattato
della
Triplice
alleanza
nel
caso
in
cui
l'Austria,
vittoriosa,
si
fosse
annessa
altri
territori
nei
Balcani.
La
sera
del
23
luglio
1914
era
stato
consegnato
alla
Serbia
un
ultimatum
che
ne
esigeva
la
resa
incondizionata,
e
che
di
fatto
rendeva
inevitabile
la
guerra.
Nel
giro
di
una
settimana
il
conflitto
si
estese
a
tutta
Europa:
il
1°
agosto
la
Germania
dichiarò
guerra
alla
Russia,
il
3
alla
Francia,
accanto
alla
quale
si
schierò
l'Inghilterra.
L’Italia,
legata
ad
Austria
e
Germania
dal
patto
di
Triplice
Alleanza,
vide
una
consistente
ripresa
della
propaganda
irredentista
sul
territorio,
fomentata
dalla
destra
nazionalista,
che
era
favorevole
all'entrata
in
guerra.
Restava
da
chiarire
da
quale
parte
schierarsi.
Gli
stessi
nazionalisti
erano
divisi.
Vennero
adottate
misure
preventive:
i
civili
italiani
considerati
pericolosi
dalle
autorità
austro-ungariche
vennero
deportati
verso
la
Croazia
e
l'Ungheria
-
i
reparti
asburgici
in
mobilitazione,
costituiti
da
Giuliani
e
Dalmati,
onde
contenere
i
casi
di
diserzione,
vennero
inviati
sul
fronte
orientale.
Antonio
Salandra,
presidente
del
consiglio
dei
ministri
e
Antonino
Paternò
Castello
di
San
Giuliano,
annunciarono
la
loro
decisione:
l'Italia
sarebbe
rimasta
neutrale.
La
prima
reazione
del
Paese
fu
un
respiro
di
sollievo.
Vi
fecero
eccezione
solo
alcuni
conservatori
che
avrebbero
voluto
l'intervento
accanto
agli
alleati
della
Triplice
Alleanza.
Tuttavia
risultava
chiaro
che
la
neutralità
era
soltanto
un
ripiego
temporaneo
e
che
presto
o
tardi
si
sarebbe
dovuta
operare
una
scelta.
La
decisione
di
neutralità
italiana
aveva
comunque
suscitato
a
Vienna
e
Berlino
grandi
contrarietà;
venne
considerata
un
“tradimento”.
Era
evidente
che
nel
caso
di
vittoria
degli
Imperi
Centrali,
l'Italia
ne
sarebbe
divenuta
una
vassalla;
ma
sulla
carta,
l’alleanza
era
ancora
in
vigore
e
rappresentava
un
freno
morale
dell'Italia
a
passare
in
campo
avversario.
Alla
fine
agosto,
l'Austria
riconobbe
legittima
la
neutralità
italiana,
come
da
espressi
accordi
del
trattato,
ovvero,
che
in
caso
di
aggressione
alla
Serbia,
questa
non
poteva
contare
sull’intervento
italiano,
ed
acconsentì
a
discutere
la
questione
dei
compensi.
San
Giuliano
non
mostrò
premura
nello
sviluppo
dei
negoziati,
temporeggiando.
Offerte
molto
più
sostanziose
arrivarono
dalla
Russia,
che
prometteva
Trento,
Trieste,
l'Albania.
San
Giuliano
mirava
a
guadagnare
tempo
per
meglio
capire
gli
sviluppi
bellici
e
operare
una
scelta
di
convenienza.
L’Italia
era
inoltre
ancora
impreparata
per
affrontare
un
conflitto
bellico,
scarseggiando
sia
in
uomini
addestrati
che
in
mezzi,
i
quali,
dopo
la
guerra
di
Libia,
non
erano
stati
riforniti.
Il
generale
Cadorna
scrisse
a
Salandra
consigliando
di
rimandare
ogni
decisione
a
primavera,
vista
la
mancanza
di
uniformi
pesanti
che
consentissero
di
affrontare
l'inverno.
Per
l'intervento
a
fianco
dell'Intesa
c’erano
gl'irredentisti,
e
particolarmente
quelli
del
Trentino,
della
Venezia
Giulia
e
della
Dalmazia,
promotori
di
una
incessante
propaganda.
Cesare
Battisti,
con
il
suo
giornale,
suscitava
una
profonda
eco
negli
ambienti
democratici
e
repubblicani
e
in
tutto
il
gruppo
radicale
che
faceva
capo
al
Secolo.
Peppino
Garibaldi,
nipote
dell'Eroe,
costituì
la
Legione
Garibaldina,
che
il
26
dicembre
1914
combatté
nei
pressi
di
Bolante
una
sanguinosa
battaglia
nelle
fila
francesi,
contro
i
tedeschi.
La
seconda
battaglia
della
Legione
Garibaldina
avvenne
il
5
gennaio
1915
a
Four
de
Paris,
dove
la
Legione
subì
gravi
perdite.
A
metà
marzo
l’unità
venne
sciolta
ed
i
suoi
componenti
inviati
in
Italia
al
seguito
della
brigata
Cacciatori
delle
Alpi.
Interventista
pro
Intesa
era
anche
l'Associazione
«Trento
e
Trieste»,
e
il
suo
presidente
Giurati,
sotto
cui
si
raccoglievano
i
profughi
dell'Istria
e
della
Dalmazia,
esacerbati
dal
conflitto
con
gli
slavi
e
animati
da
uno
spirito
di
rivalsa.
Ben
presto,
dal
susseguirsi
degli
eventi
bellici,
divenne
chiaro
che
il
conflitto
non
si
sarebbe
risolto
così
facilmente
con
la
decantata
vittoria
austro-tedesca,
vittoria
peraltro
molto
temuta
in
Italia.
Questo
rafforzò
la
causa
interventista
che
poteva
contare
su
un
considerevole
numero
di
giornali
a
suo
sostegno:
il
Giornale
d'Italia,
La
Tribuna,
PIdea
nazionale,
Il
Secolo
e
il
Corriere
della
Sera.
Rimaneva
neutralista
La
Stampa
di
Torino,
legata
a
Giolitti,
il
quale
temeva
la
Germania
quale
avversaria
militare,
ammirazione
contrapposta
all’opinione
negativa
che
nutriva
sui
nostri
Comandi
militari
e
alla
consapevolezza
della
pochezza
militare
del
nostro
paese.
Giolitti
era
anche
dell’idea
che
se
l'Italia
fosse
entrata
in
guerra,
questa
sarebbe
comunque
durata
ancora
per
anni.
A
metà
ottobre
San
Giuliano
morì
e
prese
il
suo
posto
Sidney
Sonnino,
liberale
conservatore
di
origini
ebraiche.
Il
barone
Sonnino
aveva
già
ricoperto
le
cariche
di
ministro
delle
Finanze
e
ministro
del
Tesoro,
dal
1893
al
1896,
risanando
le
casse
del
Regno.
In
un
primo
momento
era
stato
fra
coloro
che
avevano
caldeggiato
l'intervento
a
fianco
degl'Imperi
Centrali,
ma
ben
presto
aveva
cambiato
opinione
a
favore
del
non
intervento,
sempre
in
attesa
che
maturassero
gli
eventi.
Nel
frattempo,
mentre
si
continuava
a
trattare
con
entrambe
le
fazioni,
in
tutto
il
paese
fervevano
i
preparativi
di
riarmo.
Ad
ottobre
ci
fu,
nonostante
il
parere
sfavorevole
di
Cadorna,
uno
sbarco
in
Albania
da
parte
italiana,
ma
nessuna
delle
Grandi
Potenze
protestò.
L'11
dicembre,
Sonnino
ritenne
maturi
i
tempi
per
tornare
a
discutere
con
Berchtold
(ministro
degli
esteri
austro-ungarico),
il
diritto
ai
compensi
italiani.
Venne
richiesto
un
sollecito
avvio
di
negoziati.
Il
16
dicembre
1914
arrivò
a
Roma,
da
Berlino,
l'ex
cancelliere
von
Bülow
con
l’intento
di
garantirsi
il
mantenimento
della
neutralità
italiana.
La
Germania
aveva
molti
interessi
economici
e
finanziari
in
Italia,
la
quale
inoltre
poteva
garantire
il
rifornimento
di
generi
alimentari
e
bellici.
Berchtold
sapeva
che
per
garantirne
la
neutralità,
bisognava
cedere
all'Italia
(almeno
temporaneamente),
il
Trentino
fino
al
Brennero
e
la
riva
destra
dell'Isonzo;
a
tal
fine
presentò
la
proposta
all'Imperatore,
il
quale
dissentì
in
modo
tanto
risoluto
da
costringere
Berchtold
a
dover
rifiutare
ogni
discussione
circa
il
Trentino,
pure
in
presenza
di
una
generica
proposta
tedesca
di
contro-compensare
Vienna
con
una
parte
della
Slesia.
Berchtold
poteva
soltanto
confermare
i
diritti
italiani
in
Albania.
Per
Sonnino
le
concessioni
erano
insufficienti
e
senza
il
Trentino,
Roma
non
avrebbe
garantito
nulla.
Il
7
gennaio
fece
ribadire
a
Vienna
che
l'Italia
avrebbe
accettato
unicamente
territori
austriaci.
Fu
allora
che
Sonnino
chiese
all'Ambasciatore
italiano
a
Londra
d'intavolare,
nella
massima
segretezza,
un
negoziato
con
l’Inghilterra.
Quando
Burian
successe
a
Berchtold,
ripresero
le
trattative,
ma
Sonnino
gli
disse
che
non
si
sarebbe
accontentato
del
Trentino,
che
l'Italia
voleva
anche
Trieste.
Burian
fece
delle
controfferte
evasive
con
il
proposito
di
guadagnar
tempo
in
attesa
della
grande
offensiva
di
primavera
sui
Carpazi.
Se
si
fosse
risolta
a
favore
dell’Austria,
l’Italia
avrebbe
dovuto
ridimensionare
le
proprie
pretese.
Nel
frattempo
l’ambasciatore
italiano,
Imperiali,
aveva
palesato
a
Londra
le
richieste
in
cambio
dell'intervento,
pretese
piuttosto
consistenti:
il
Trentino
fino
al
Brennero
compreso
il
Sud-Tirolo;
Trieste
con
le
Alpi
Giulie;
tutta
l'Istria
e
quasi
tutta
la
Dalmazia;
Valona
col
suo
dell'entroterra
albanese;
il
Dodecaneso
ed
eventuali
spartizioni
in
Africa
e
in
Medio
Oriente
dei
territori
germanici.
Tranne
che
per
il
Dodecaneso,
il
ministro
degli
Esteri
inglese
Grey,
sperando
che
l'intervento
italiano
avrebbe
provocato
anche
la
scesa
in
campo
di
Romania
e
Grecia,
accettò
le
richieste;
altrettanto
favorevoli
si
dimostrarono
i
francesi,
mentre
le
rifiutarono
i
russi,
che
miravano
alle
popolazioni
slave
d'Europa.
Il
blocco
russo
insabbiò
le
trattative
e
Sonnino
le
riprese
con
l'Austria
che
ora
era
disposta
a
trattare
la
cessione
del
Trentino,
ma
Sonnino
rinforzò
le
sue
pretese
e
ora
chiedeva
in
aggiunta
Gorizia,
Trieste
e
le
isole
della
Dalmazia.
Vienna
indugiò
indignata,
ma
nel
frattempo
i
russi
subirono
una
grande
sconfitta
in
Galizia
e
decadeva
il
loro
veto
alle
richieste
italiane:
Inghilterra
e
Francia
accettavano
le
nostre
proposte
e
si
giunse
al
famoso
Patto
di
Londra,
firmato
il
26
aprile
1915.
Venne
chiesto
un
prestito
di
50
milioni
di
sterline
e
ci
si
impegnò
a
scendere
in
guerra
entro
un
mese.
In
previsione
di
una
guerra
rapida,
Sonnino
non
aveva
insistito
con
i
nuovi
alleati
per
la
città
di
Fiume
e
per
le
spartizioni
in
Medio
Oriente
e
in
Africa.
L’accordo
prevedeva
l'assegnazione
all'Italia
di
territori
non
definiti
in
Anatolia,
senza
alcun
accenno
alle
colonie
tedesche.
Altro
errore
di
Sonnino,
per
eccessivo
zelo
di
segretezza,
fu
quello
di
non
comunicare
gli
accordi
e
i
piani
bellici
alla
Serbia,
e
ancor
peggio
alla
Romania,
dato
che
con
quest’ultima
si
sarebbe
potuto
concordare
una
scesa
in
campo
in
sincronia,
con
maggiore
impatto
offensivo.
Intanto
gli
interventisti
avevano
guadagnato
consensi,
scesero
a
più
riprese
nelle
strade,
vi
furono
scontri
con
la
polizia
e
le
fazioni
non
interventiste,
si
contarono
alcuni
morti.
In
Vaticano,
il
nuovo
Papa
si
adoperava
con
Cadorna
affinché
fosse
sfavorevole
all'intervento.
Pochi
giorni
dopo
il
Patto
di
Londra
d'Annunzio
era
ritornato
in
Italia
per
commemorare
a
Quarto
la
spedizione
dei
Mille,
e
gl’interventisti
gli
avevano
organizzato
una
cerimonia
ufficiale
alla
quale
avrebbe
tenuto
un’orazione.
Il
Re
e
Salandra,
che
si
erano
impegnati
a
intervenire
alla
cerimonia,
quando
ne
lessero
il
contenuto,
preferirono
non
parteciparvi.
D'Annunzio
si
rivolse
all'enorme
folla
intervenuta
con
queste
parole:
«Voi
volete
un'Italia
più
grande
non
per
acquisto,
ma
per
conquisto,
non
a
misura,
ma
a
prezzo
di
sangue
e
di
gloria...
O
beati
quelli
che
più
danno
perché
più
potranno
dare,
più
potranno
ardere...
Beati
i
giovani
affamati
e
assetati
di
gloria,
perché
saranno
saziati...».
Secondo
gli
accordi
presi
a
Londra
mancavano
soltanto
tre
settimane
prima
che
l'Italia
dovesse
entrare
in
guerra.
L’esercito
austro-tedesco,
viveva
un
momento
di
gloria:
dopo
aver
sfondato
il
fronte
russo
avanzava
in
Galizia.
Berlino,
che
aveva
intuito
un
cambio
di
posizione
dell’Italia,
ingiunse
a
Vienna
di
acconsentire
alle
richieste
sui
territori,
e
Bùlow
ne
informò
Giolitti.
Il
10
maggio,
Giolitti,
informato
che
il
Patto
di
Londra
era
stato
firmato
e
che
il
Re
lo
aveva
personalmente
avallato,
chiese
un
colloquio
con
Vittorio
Emanuele
III.
Durante
l’incontro
ribadì
la
sua
opinione
che
l’esercito
non
era
pronto,
che
la
forza
militare
austro-tedesca
era
ancora
intatta
e
che
sicuramente
la
guerra
si
sarebbe
protratta
troppo
a
lungo
per
le
risorse
italiane,
quindi
il
Patto
di
Londra
andava
revocato.
Il
Re
rispose
che
aveva
inviato
un
telegramma
a
Londra
in
cui
si
era
personalmente
impegnato
-
non
poteva
ritornare
sui
propri
passi
a
meno
che
non
avesse
abdicato.
Giolitti
suggerì
un
voto
della
Camera
(che
tra
l’altro
ignorava
l’accordo
di
Londra)
a
riconferma
della
neutralità,
consentendo
al
governo
di
riprendere
i
negoziati
con
l'Austria
e
liberando
il
sovrano
dagli
impegni
presi
a
Londra.
Salandra
si
disse
d'accordo
sul
voto
della
Camera
e
Giolitti
confidò
a
Malagodi
che
a
volere
la
guerra
era
soltanto
Sonnino.
Il
giorno
11
Giolitti
fece
uscire
su
La
Stampa
le
notizie
della
schiacciante
vittoria
austro-tedesca
in
Galizia,
dei
falliti
tentativi
di
sbarco
inglesi
nei
Dardanelli
e
dulcis
in
fundo,
le
generose
offerte
austriache
a
fronte
del
non
intervento.
Il
giorno
successivo
si
tenne
un
Consiglio
dei
Ministri,
a
cui
fece
seguito
un
intrecciarsi
d'incontri
e
di
colloqui,
e
ne
risultò
che
la
maggioranza
era
a
favore
della
neutralità.
Salandra
rassegnò
le
proprie
dimissioni.
La
sera
dello
stesso
giorno
d’Annunzio
tenne
un
nuovo
discorso
a
Roma,
ma
questa
volta
contro
i
pacifisti,
contro
Giolitti,
la
cui
abitazione
venne
presa
d’assalto
da
una
folla
inferocita.
Le
dimissioni
del
governo
crearono
un
pauroso
vuoto
di
potere
e
di
informazione.
Il
Corriere
della
Sera
pubblicò
che
il
patto
di
Triplice
Alleanza
era
stato
disatteso
e
i
socialisti
promossero
uno
sciopero
generale
a
Torino,
dove
ci
furono
dei
morti.
D'Annunzio
a
Roma,
Mussolini
e
Corridoni
a
Milano
continuavano
ad
aizzare
le
folle.
In
quel
momento
di
profonda
crisi
fu
Vittorio
Emanuele
III
a
prendere
l’iniziativa,
il
Re,
che
tra
l’altro
non
aveva
mai
visto
di
buon
grado
l’alleanza
con
Austria
e
Germania,
aveva
dato
la
propria
parola
agli
inglesi,
e
il
rimangiarsela
equivaleva
a
perdere
la
propria
dignità.
Il
Parlamento
non
voleva
l'intervento,
ma
non
riusciva
a
trovare
un
uomo
disposto
ad
assumersi
la
responsabilità
di
rifiutarlo
e
nei
giorni
in
cui
le
consultazioni
si
erano
susseguite,
la
popolazione
era
scesa
ovunque
in
piazza,
pro
guerra.
Con
un
sostanziale
colpo
di
stato,
il
Re
richiamò
Salandra
al
governo,
e
diede
il
via
all'intervento.
Il
18
Biilow
fece
un
disperato
tentativo
trasmettendo
a
Sonnino
nuove
controfferte
austriache
e
pregando
il
Papa
di
caldeggiarle.
Ma
era
troppo
tardi
per
prenderle
in
considerazione.
Il
20
Salandra
chiese
i
pieni
poteri
alla
Camera,
senza
opposizione.
Il
23
ci
fu
l'ultimatum
a
Vienna,
e
il
giorno
successivo
la
dichiarazione
di
guerra.
Vicina
al
movimento
irredentista
italiano
e
considerata
come
tale
dalle
autorità
austriache,
vi
fu
la
Lega
Nazionale,
massima
organizzazione
triestina
di
carattere
privato,
contava
nel
1912
più
di
11.000
associati.
Il
23
maggio
1915,
alla
notizia
della
dichiarazione
di
guerra
dell'Italia
all'Austria-Ungheria,
a
Trieste
avvennero
degli
episodi
di
violenza.
I
filoaustriaci
incendiarono
la
Lega
Nazionale,
il
Palazzo
Tonello
(dove
si
trovava
la
redazione
del
quotidiano
irredentista
"Il
Piccolo")
e
l'edificio
della
Ginnastica
Triestina,
associazione
sportiva
irredentista.
Un
migliaio
di
triestini
non
vollero
combattere
sotto
le
bandiere
austro-ungariche
e
si
arruolarono
nel
regio
esercito.
Tre
anni
più
tardi,
il
4
novembre
1918
le
truppe
italiane
entrarono
a
Trieste,
accolte
da
numerosa
folla.
Seppure
la
guerra
si
fosse
conclusa,
rimanevano
aperte
alcune
questioni
territoriali
e
in
questo
contesto
il
movimento
irredentista
caratterizzò
l'occupazione
di
Fiume,
città
a
maggioranza
italiana,
la
cui
attribuzione
all'Italia
non
era
prevista
nel
Patto
di
Londra,
peraltro
disconosciuto
dal
presidente
statunitense
Wilson.
Gabriele
d'Annunzio,
alla
guida
degli
irredentisti
italiani
radunò
a
Ronchi
di
Monfalcone
(ora
Ronchi
dei
Legionari)
volontari
provenienti
dal
Corpo
degli
Arditi
e
della
III
Armata,
raggiunto
dai
Granatieri
provenienti
da
Fiume,
che
sollecitarono
il
ritorno
in
città.
Il
12
settembre
1919
d’Annunzio
entrò
a
Fiume
e
venne
costituita
la
Reggenza
italiana
del
Carnaro,
che
si
concluderà,
dopo
i
dissensi
con
il
Governo
italiano
e
l'abbandono
della
città
da
parte
del
Vate,
il
2
febbraio
1921.
Le mire Austro-Tedesche su Trieste e sul Trentino
Hitler, già nel 1930,
aveva detto al capo della Heimwehr austriaca, il principe di Starhemberg, che
Trieste doveva essere annessa alla Germania con qualsiasi mezzo necessario; fu
proprio il principe che l'aveva raccontato a Mussolini, allora sostenitore
dell'Austria contro le mire annessionistiche della Germania. Quando, nel 1938,
Mussolini aveva dato via libera a Hitler per l'annessione dell'Austria
(Anschluss), doveva essere ben conscio di perdere ulteriore potere su Trieste.
L'Anschluss, annessione dell'Austria alla Germania nazista per formare la
"Grande Germania" era in conflitto con quanto emanato del trattato di Versailles
dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale. L'articolo 80 del 1919 vietò
esplicitamente l'inclusione dell'Austria nella Germania; stesso divieto fu
ribadito dall'articolo 88 del trattato di Saint-Germain-en-Laye. Il primo
effetto concreto ed immediato dell'Anschluss fu un maggior dirottamento del
traffico austriaco dai porti adriatici verso i porti tedeschi del Nord, sicché
fu necessario un accordo italotedesco, nel luglio 1939, per garantire ai nostri
porti il 40% del traffico del periodo prebellico.
Quando venne firmato il Patto d'acciaio tra l'Italia e la Germania, una
dichiarazione semiufficiale germanica parlava della restituzione delle province
originariamente tedesche del Trentino e di Trieste. Ci furono diverse
manifestazioni di protesta dei cittadini italiani residenti in provincia di
Udine e nella zona di Tarvisio. Nel Diario di Galezzo Ciano, in data 9 settembre
1939, si legge che l'ambasciatore d'Ungheria aveva comunicato a Mussolini come,
a Vienna, si cantasse la canzone: «Quello che abbiamo lo teniamo stretto e
domani andremo a Trieste»; il duce ne era rimasto molto scosso. Nello stesso
diario, in data 23 dicembre 1939, viene riportato il resoconto di una conferenza
tenutasi a Praga, dove emergono le mire germaniche non solo sull'Alto Adige e
Trieste, ma per l'intera pianura padana. Il nostro ambasciatore a Berlino, conte
Bernardo Attolico,
aveva raccolto le stesse informazioni. Seppure tutto venne smentito da Berlino,
il discorso trova le sue fondamenta logiche in una intera letteratura germanica.
Tutto ciò avveniva prima che Mussolini entrasse in guerra a fianco della
Germania, quindi egli non ignorava, quale sarebbe stato il destino di Trieste,
comunque la guerra si fosse conclusa. L'espansione germanica ai danni
dell'Italia, ebbe altre conferme durante la guerra. In data 18-19 novembre 1940,
sempre Ciano racconta come Hitler gli avesse detto d'essere stato sollecitato da
Horthy a discutere la questione di Trieste, ciò che avrebbe permesso al Reggente
ungherese di porre, a sua volta, delle pretese su Fiume; nel 1941 correvano voci
su una prossima annessione di Tarvisio da parte della Germania. Non dovette
costituire meraviglia, quindi, per Mussolini quanto avvenne nel Trentino e nella
Venezia Giulia dopo 1'8 settembre 1943.
All'indomani della firma di "Cassibile", nella contrada Santa Teresa Longarini di Siracusa, il Governo Provvisorio italiano siglò alcuni accordi con gli alleati che rimandavano la definizione dei confini orientali dello Stato al termine della Guerra.
In risposta all'armistizio, il 18 settembre i tedeschi occuparono militarmente ed amministrativamente il nord-est italiano fondando la Adriatisches Küstenland (comprendente anche i territori delle province di Trieste, Udine, Gorizia, Pola, Fiume e di Lubiana) controllata direttamente dai tedeschi fino al 1945.
La Germania, in
particolare durante i quarantacinque giorni del governo di Badoglio, aveva
spiegato le sue forze in modo da conquistare l'Italia in poche ore se e quando
essa passasse dall'altra parte ed in maniera da impossessarsi della Venezia
Giulia, punto fondamentale per la sicurezza delle forze tedesche impiegate nei
Balcani e punto eventuale di possibili sbarchi alleati. Nella regione giulia
l'infiltrazione tedesca era stata favorita dagli stessi militari italiani, che
abbisognavano del più esperto e spietato aiuto tedesco nella guerriglia contro i
partigiani, sicché, ai primi di settembre, i tedeschi erano già stanziati non
solo nella Slovenia, ma addirittura fino ad Opicina, immediatamente sopra
Trieste. L'urgente occupazione della Venezia Giulia, per ragioni anche
politiche, era stata sollecitata pure dal Gauleiter, luogotenente del Reich per
la Carinzia, Friedrich Rainer, mentre a Trieste, gli ex-nazionalisti cercavano,
invano, di ricostruire la Compagnia Volontari giuliani, i comunisti italiani
tentavano, del pari invano, di aver contatti con il Fronte di liberazione slavo,
che li respingeva, ed i membri degli altri antichi partiti .prefascisti si
disperdevano in varie azioni, per ottenere modifiche sostanziali e legali delle
disposizioni fasciste da parte del governo di Badoglio o nel preparare e
discutere irrealizzabili rivolte armate, destinate, però, poi, a sboccare nella
Resistenza italiana non comunista. Era stato creato un Comitato civico
antifascista, chiamato anche Fronte democratico nazionale, che comprendeva pure
i comunisti.
Voluta da Hitler per dare un ruolo formale a Benito Mussolini, la RSI
(Repubblica Sociale Italiana), pur rivendicando tutto il territorio del Regno
d'Italia, esercitò la propria sovranità solo sulle province non soggette
all'avanzata alleata e all'occupazione tedesca diretta. Inizialmente la sua
attività amministrativa si estendeva nominalmente fino alle province
settentrionali della Campania, ritirandosi progressivamente sempre più a nord,
in concomitanza con l'avanzata degli eserciti angloamericani. A nord, inoltre, i
tedeschi istituirono due "Zone di operazioni" comprendenti dei territori che
erano state parti dell'Impero Austro-Ungarico: le province di Trento, Bolzano e
Belluno (Zona d'operazioni delle Prealpi) e le provincie di Udine, Gorizia,
Trieste, Pola, Fiume e Lubiana (Zona d'operazioni del Litorale Adriatico),
sottoposte direttamente ai Gauleiter tedeschi del Tirolo e della Carinzia, de
facto, anche se non formalmente annesse al Terzo Reich. L'exclave di
Campione d'Italia fu inclusa nella Repubblica solo per pochi mesi, prima di
essere liberata grazie ad una rivolta popolare appoggiata dai carabinieri.
I nazi-fascisti tennero Trieste fino al 1º maggio 1945 quando, dopo intensi
bombardamenti alleati, i partigiani jugoslavi del generale Dusan Kveder
riuscirono ad occupare la città prima dell'arrivo delle truppe neozelandesi del
generale Bernard Freyberg. Kveder proclamò l'annessione di Trieste e dei
territori limitrofi alla nascente Federazione Jugoslava quale sua settima
repubblica autonoma, mentre Tito, appoggiato anche dalle formazioni partigiane
comuniste di italiani che vi operavano, poteva affermare di avere il controllo
di tutta la Venezia Giulia.
Gli anglo-americani non gradirono molto le manovre di Tito ed il generale Harold Alexander, su indicazione di Winston Churchill, ottenne con l'accordo di Belgrado del 9 giugno 1945 il ritiro dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia ed il passaggio di Trieste e Gorizia, nonché (20 giugno) di Pola, ad un "Governo Militare Alleato", che assunse il controllo anche di Rovigno e Parenzo. Questo stabiliva la linea "Morgan", ovvero la linea di demarcazione lungo il corso dell'Isonzo e fino a est / sud-est di Muggia,
Zona A e Zona B
Trieste e l'Istria vennero quindi suddivise in due zone (A e B) amministrate
militarmente dagli alleati e dagli jugoslavi: la prima comprendeva il litorale
giuliano da Monfalcone fino a Muggia più l'enclave di Pola, la seconda il resto
dell'Istria. Il 2 giugno 1946 si svolse il referendum istituzionale a seguito
del quale gli italiani scelsero la Repubblica, ma la Venezia Giulia (Province di
Gorizia, Trieste, Pola, Fiume), pur essendo formalmente ancora sotto sovranità
italiana, non partecipò alla consultazione a causa delle pressioni jugoslave
presso i governi Alleati. Per calmare gli animi il Governo militare alleato (AMG
in inglese) concesse il passaggio del Giro d'Italia, poi bersagliato dalle
proteste degli attivisti filo-sloveni, culminate nello scontro di Pieris.
Dal 12 giugno 1945 al Trattato di Parigi del 1947
Allo stesso modo i cittadini della Venezia Giulia non poterono partecipare alle
elezioni della nuova Assemblea Costituente. Il 10 febbraio del 1947 venne
firmato il trattato di pace dell'Italia, che istituì il Territorio Libero di
Trieste, costituito dal litorale triestino e dalla parte nord occidentale
dell'Istria, provvisoriamente diviso da una linea confinaria passante a sud
della cittadina di Muggia ed amministrato rispettivamente dal Governo Militare
Alleato (zona A) e dall'esercito jugoslavo (zona B), in attesa della creazione
degli organi costituzionali del nuovo stato.
Il T.L.T.
Il Territorio Libero di
Trieste fu previsto nel 1947 all'interno del trattato di pace con l'Italia alla
fine della seconda guerra mondiale.
Secondo l'articolo 21 del trattato, il TLT sarebbe stato riconosciuto dalle
Potenze Alleate e dall'Italia, e la sua integrità ed indipendenza sarebbero
state assicurate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
La mancata entrata in vigore dello statuto permanente e la mancata nomina del
governatore e degli altri organi di governo del TLT determinarono uno stallo che
mise in dubbio fra gli studiosi di diritto internazionale l'effettività
dell'esistenza stessa di uno stato denominato Territorio Libero di Trieste,
carente di uno degli elementi costitutivi per essere definito tale – la
sovranità – e soggetto perennemente ad un governo provvisorio militare.
Nell'ambito di questa situazione, si svilupparono delle teorie
internazionalistiche minoritarie, che ritennero che non essendo mai sorto un TLT
indipendente come previsto dal trattato di pace, l'Italia non avesse mai perso
la propria sovranità su tutto il territorio. Di contro, la teoria
predominante considerò parimenti l'insussistenza di uno stato definibile come
Territorio Libero di Trieste essendo quindi il territorio assoggettato a un
regime di occupazione militare, senza essere nel frattempo soggetto a una
sovranità statale. La situazione di stallo trovò de facto una soluzione con
gli accordi di Londra del 1954, e de iure definitivamente nel 1975, quando col
trattato di Osimo Italia e Jugoslavia incorporarono formalmente le zone A e B.
Il TLT era diviso in due zone:
la Zona A di 222,5 km² e circa 310 000 abitanti (di cui, secondo stime alleate,
63 000 sloveni) partiva da San Giovanni di Duino (slov. Štivan), comprendeva la
città di Trieste e terminava presso Muggia; era amministrata da un Governo
Militare Alleato (Allied Military Government - Free Territory of Trieste -
British U.S. Zone);
la Zona B con la parte nord-occidentale dell'Istria, di 515,5 km² e circa 68 000
abitanti (51 000 italiani, 8 000 sloveni e 9 000 croati secondo le stime della
Commissione Quadripartita delle Nazioni Unite – vedi tabella sottostante) che
era amministrata dall'esercito jugoslavo (S.T.T. - V.U.J.A). La Zona B fu, a sua
volta, divisa in due parti: il distretto di Capodistria e il distretto di Buie,
separati dal torrente Dragogna (che successivamente segnerà il confine tra la
Slovenia e la Croazia). Capodistria divenne la sede dell'amministrazione
militare e civile jugoslava della zona.
Il vizio all'origine del TLT stava nell'asimmetria delle amministrazioni. La
Zona A era affidata in amministrazione a potenze non confinanti (inglesi e
statunitensi), la Zona B ad uno stato confinante, la Jugoslavia, che aspirava ad
annettersi l'intero territorio. In pratica mai funzionò come un vero stato
indipendente. Il suo funzionamento dipendeva dalla nomina di un Governatore da
parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La scelta del Governatore
si protrasse per vari anni e i diversi nomi proposti furono sistematicamente
oggetto di veto sia da parte degli Alleati che da parte dei sovietici.
Nel 1952 nella Zona A alcune competenze (fra cui il Direttorato delle finanze e
dell'economia), vennero affidate a dirigenti nominati direttamente dal Governo
italiano. Il 5 e 6 novembre 1953 vi furono a Trieste violenti scontri di
piazza da parte di coloro che reclamavano la riunificazione della città
all'Italia. Nei disordini vennero uccisi sei cittadini, cui è stata
successivamente conferita un'onorificenza dal governo italiano.
Il Territorio Libero di
Trieste (in sloveno: Svobodno tržaško ozemlje, in croato: Slobodni teritorij
Trsta, in inglese: Free Territory of Trieste), spesso colloquialmente abbreviato
in TLT, era uno stato indipendente previsto dall'articolo 21 del trattato di
Parigi fra l'Italia e le potenze alleate del 1947. A norma dello stesso trattato
il Territorio Libero di Trieste sarebbe dovuto essere demilitarizzato e
neutrale, governato inizialmente secondo le previsioni normative di uno
Strumento per il regime provvisorio, redatto dal Consiglio dei Ministri degli
Esteri e approvato dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Tale Strumento sarebbe
rimasto in vigore fino alla data che il Consiglio di Sicurezza avrebbe dovuto
determinare per l'entrata in vigore di uno Statuto Permanente, allegato al
trattato di Parigi. In immediata successione si sarebbero dovute creare le forme
di governo necessarie per il funzionamento dello stato (un Governatore, un
Consiglio di Governo, un'assemblea Popolare eletta dal popolo del territorio
Libero ed un Corpo Giudiziario), nonché eleggere un'assemblea costituente che
avrebbe dovuto approntare la nuova costituzione del TLT. L'ONU avrebbe comunque
mantenuto dei poteri di controllo sul TLT, per il tramite del proprio Consiglio
di Sicurezza.
Il TLT avrebbe compreso nei suoi confini circa 375 000 abitanti (264 000
italiani, 85 000 sloveni, 11 000 croati e 15 000 di nazionalità diverse),
comprendendo la città di Trieste (capitale del TLT), a nord il litorale fino al
Timavo, e a sud parte dell'Istria fino al fiume Quieto, nonché un Porto Libero a
sua volta amministrato da uno Strumento internazionale.
Il 5 ottobre 1954 venne firmato a Londra un memorandum d'intesa in cui Italia e
Jugoslavia si spartivano provvisoriamente il Territorio (testo), con il
passaggio della Zona A all'amministrazione civile italiana e la Zona B a quella
jugoslava: la linea di demarcazione fra le due zone venne però spostata a
favore della Jugoslavia. Precedentemente essa tagliava l'abitato di Albaro
Vescovà (Škofije) e proseguendo all'interno della penisola muggesana arrivava
sino ad Ancarano, lasciando nella Zona A le frazioni di Valdoltra, Elleri,
Crevatini (Hrvatini) e Plavia (Plavje): a seguito della stipula del Memorandum
d'intesa anche questi centri abitati furono assegnati alla Jugoslavia.
Il passaggio dei poteri dall'amministrazione alleata a quella italiana avvenne
il 26 ottobre 1954.
Nel 1975 un nuovo trattato firmato a Osimo dava copertura giuridica allo status
quo tra Italia e Jugoslavia. L'ordine del giorno dell'ONU per la nomina del
Governatore del TLT venne quindi rimosso il 9 gennaio 1978, a seguito di
esplicita richiesta dei rappresentanti italiano e jugoslavo.
Comandanti di zona del TLT
Lista dei comandanti di zona del TLT suddivisi nelle due zone d'occupazione:
Zona A
16 settembre 1947 - 31 maggio 1951: Sir Terence Sydney Airey (Regno Unito)
31 maggio 1951 - 26 ottobre 1954: Sir Thomas Winterton (Regno Unito)
Zona B
15 settembre 1947 - marzo 1951: Mirko Lenac
marzo 1951 - 26 ottobre 1954: Miloš Stamatović
Comandante della polizia jugoslava (zona B): Anton Ukmar
Lingue e gruppi linguistici
Zona A
Ecco le lingue ed i gruppi linguistici nella zona A, secondo le stime
approssimative del Governo Militare Alleato fatte nel 1949:
Etnia Numero di abitanti Percentuale
Italiani 239 200 (79%)
Sloveni 63 000 (21%)
Totale 302 000 (100%)
Inoltre erano presenti 5 000 soldati statunitensi della TRUST (TRieste United
States Troops) e 5 000 soldati britannici della BETFOR (British Element Trieste
FORce). Al censimento italiano del 1971 si dichiareranno di lingua slovena
soltanto 24 000 persone, pari all'8% della popolazione.
Zona B
Stemma utilizzato nella zona B.
Secondo le stime della Commissione internazionale inviata dalle quattro potenze
nel 1946, le lingue e i gruppi linguistici nella Zona B erano costituiti da:
Etnia Numero di abitanti Percentuale
Italiani 51 000 70 %
Sloveni e croati 17 000 30 %
Totale 68 000 100 %
Inoltre erano presenti 5 000 soldati dell'Armata Popolare Jugoslava.
Forze armate e di polizia del TLT
Il confine tra Italia e Territorio libero di Trieste sulla SS 14 tra Monfalcone
e Duino-Aurisina.
Zona A
Polizia militare alleata Stati Uniti Regno Unito
TRUST (TRieste United States Troops) Stati Uniti
351st Infantry Regiment, su:
Comando e Compagnia Comando
Compagnia Servizi
Compagnia Mortai Pesanti
Compagnia Carri
Tre battaglioni di fanteria, ciascuno su Compagnia Comando, tre compagnie
fucilieri e compagnia armi pesanti.
Nella regione la situazione si fece incandescente e numerosi furono i disordini
e le proteste tra gli italiani: in occasione della firma del trattato di pace,
la maestra Maria Pasquinelli uccise a Pola il generale inglese Robin De Winton,
comandante delle truppe britanniche. In occasione dell'entrata in vigore del
trattato stesso (15 settembre 1947) corse addirittura voce che le truppe
jugoslave di stanza nella zona B avrebbero cercato di occupare Trieste. Negli
anni successivi la diplomazia italiana cercò di ridiscutere gli accordi di
Parigi per chiarire le sorti di Trieste, senza successo.
Nel frattempo continuavano scontri e disordini a Trieste:
l'8 marzo 1952 una bomba uccise alcuni manifestanti di un corteo di italiani;
nell'agosto-settembre 1953 il governo italiano inviò truppe lungo il confine con
la Jugoslavia; nel novembre del 1953 in occasione di altri scontri con le truppe
Angloamericane si registrarono ulteriori vittime (Pierino Addobbati, Erminio
Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia e Antonio Zavadil), che
ricevettero in seguito la Medaglia d'Oro al Valor Militare con la seguente
motivazione:
« ...Animato da profonda passione e spirito patriottico partecipava ad una
manifestazione per il ricongiungimento di Trieste al Territorio nazionale,
perdendo la vita in violenti scontri di piazza. Nobile esempio di elette virtù
civiche e amor patrio, spinti sino all'estremo sacrificio. ... »
L'accordo del 5 ottobre 1954
La situazione si chiarì solo il 5 ottobre 1954 quando col Memorandum di Londra
la Zona "A" del TLT passò all'amministrazione civile italiana: contestualmente
l'amministrazione jugoslava della Zona "B" passò da militare a civile. Gli
accordi prevedevano inoltre alcune rettifiche territoriali a favore della
Jugoslavia fra cui il centro abitato di Albaro Vescovà / Škofije con alcune aree
appartenenti al Comune di Muggia (pari a una decina di km²). Il 4 novembre 1954
il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi si recò a Trieste. Nel corso del
suo breve discorso egli fra l'altro affermò:
« ... Voi triestini, per giungere alla meta, avete discusso clausola per
clausola, parola per parola, per lunghi mesi l'accordo or firmato. Avete difeso
metro per metro quel territorio che nella vostra convinzione doveva rimanere
unito a Trieste.
Consentitemi di congratularmi con voi per aver dato prova di coraggio. Operando
così, in silenzio, voi vi siete resi benemeriti della patria italiana."... »
Il 9 novembre 1956 venne conferita alla città la Medaglia d'Oro al Valor
Militare, con la seguente motivazione:
« Protesa da secoli a additare nel nome d'Italia le vie dell'unione tra popoli
di stirpe diversa, fieramente partecipava coi figli migliori alla lotta per
l'indipendenza e per l'unità della Patria; nella lunga vigilia confermava col
sacrificio dei martiri la volontà d'essere italiana; questa volontà suggellava
col sangue e con l'eroismo dei volontari della guerra 1915 - 18. In condizioni
particolarmente difficili, sotto l'artiglio nazista, dimostrava nella lotta
partigiana quale fosse il suo anelito alla giustizia e alla libertà che
conquistava cacciando a viva forza l'oppressore. Sottoposta a durissima
occupazione straniera, subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle
foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla
Patria. Contro i trattati che la volevano staccata dalla Madrepatria, nelle
drammatiche vicende di un lungo periodo d'incertezze e di coercizioni, con
tenacia, con passione e con nuovi sacrifici di sangue ribadiva dinanzi al mondo,
il suo incrollabile diritto d'essere italiana. Esempio d'inestinguibile fede
patriottica, di costanza contro ogni avversità e d'eroismo. 1915 - 1918, 1943 -
1947, 1948- 1954 »
Trattato di Osimo
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Trattato di Osimo.
Fu però necessario attendere il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975 per la
firma di un regolamento definitivo tra Italia e Jugoslavia, che sancì la
sovranità jugoslava sulla zona B e quella italiana sulla zona A. Il trattato
implicò la rinuncia formale da parte dell'Italia a qualsiasi pretesa sulla Zona
B, ma fu un passo molto gradito alla NATO, che valutava particolarmente
importante la posizione sul piano internazionale della Jugoslavia in quel
momento.
Carlo Wostry
La gloria d'arte per cui splendette Venezia lasciando un'orma luminosa nei
paesi del Friuli, dell'Istria e della Dalmazia a lei soggetti, si arresta alle
porte di Trieste, da una parte a Monfalcone, dall'altra a Muggia. Zaule segnava
il confine della repubblica: la nostra città ne rimaneva esclusa. È vero che
Trieste era allora un piccolo borgo e si trovava sempre in antagonismo con
Venezia; ma questa non sarebbe ancora una buona ragione, perché i suoi
negozianti arricchiti non sentissero lo stesso bisogno dei loro concorrenti
veneziani di fabbricarsi delle dimore sontuose, arredandole con suppellettili
d'arte che, naturalmente, avrebbero dovuto risentire di quella scuola e di
quell'esempio, mentre la nostra città non poteva e non voleva subire l'influsso
di una civiltà di carattere etnico del tutto diverso dal suo, cioè del paese dal
quale politicamente dipendeva. E in ciò consiste il miracolo della sua
italianità: l'influenza tedesca, che per esempio lasciò tracce notevolissime a
Lubiana si da darle una spiccata impronta di città alemanna, avrebbe potuto
benissimo far quattro passi di più e arrivare fino a noi. Tentò di farli, ma non
trovò mai il terreno adatto al suo sviluppo. Se togliamo dunque qualche singolo
edificio che ha l'aria e il tipo di molti consimili veneziani del tardo Seicento
o Settecento, è necessario arrivare fino all'Ottocento per riscontrare da noi il
primo soffio dell'arte. Giuseppe Caprin nei Nostri nonni » ne parla
esaurientemente. Ma non uno degli artisti che avevano lavorato in quel periodo
era triestino! Il Molari, che disegnò l'edificio della Borsa e la facciata della
Casa Chiozza, era di Macerata; il Selva, che edificò l'interno del teatro Verdi,
era veneto; di origine tedesca il Pertsch che ne disegnò la facciata e poi il
palazzo Carciotti e la casa Panzera. Gli scultori che collaborarono a queste
fabbriche sono il Bosa padre, Bartolomeo Ferrari, il Banti e lo Zandomeneghi,
tutti veneti.
La fabbrica che occupò poi maggior numero di artisti fu la Chiesa di S. Antonio
Nuovo, eretta su disegni di Pietro Nobile, un architetto di origine svizzera. Le
statue dell'attico e gli angeli della tribuna sono del Bosa figlio. I pittori
che ne decorarono l'interno sono anch'essi forestieri : il Politi da Udine, il
Grigoletti da Pordenone, il Lipparini da Venezia.
Tedeschi sono il Tunner e lo Schönemann. Solo più tardi i quadri della Via
Crucis furono eseguiti da alcuni nostri artisti, come Augusto Tominz,
l'Acquarolli, il Polli, il Guerini, su disegni di Giuseppe Lorenzo Gatteri.
Sebastiano Santi che dipinse la tribuna dei Gesuiti, la cappella dell'Addolorata
di S. Giusto e l'abside di S.Antonio Nuovo, era veneziano. Anche la maggior
parte degli scalpellini, fabbri e falegnami che attese a tutte queste opere ci
venne dal Friuli, dalla Svizzera, dalla Lombardia. Forestieri sono i decoratori
e gli scenografi dei nostri teatri: Domenico Camisetta, Lorenzo Scarabellotto e
il valentissimo Sanquirico. Questo primo sviluppo edilizio fece si che molti
artisti, i quali avevano collaborato a queste fabbriche, si accasassero da noi.
Il Pertsch divenne triestino d'adozione e così i due figli del Bosa, Eugenio e
Francesco, e il Bianchi, autore di uno dei due gruppi delle facciate del
Tergesteo. Giovanni Bernardino Bison da Palmanova viene quasi considerato
triestino per i tanti anni che dimorò a Trieste. E a Trieste nacque il pittore
Felice Schiavoni, figlio di Natale Schiavoni, il quale, vissuto a lungo fra noi,
era riuscito a farsi una fortuna con i suoi ritratti. Il risveglio economico
pronunciatosi allora aveva moltiplicato il benessere e l'agiatezza dei
cittadini. L' amore per le belle arti era cresciuto. Sorsero palazzi e lussuose
abitazioni. Il danaro passava dalle tasche dei negozianti in quelle degli
artisti. Gli artisti sono come i seminatori, dice Giuseppe Caprin : dietro di
loro avviene la germinazione.
Nel 1826 - 27 per la prima volta l'Accademia di Belle Arti di Venezia premiò i
giovani triestini Lorenzo Butti, Giuseppe Solferini e Gaetano Merlato. La nostra
« Società di Minerva » bandiva nel 1830 la sua prima esposizione di Belle Arti.
I partecipanti triestini furono il Poiret, il miniaturista Luigi de Castro, lo
Sforzi, il Goldmann, il Merlato, il Butti e Anna de Frattnig Salvotti, nipote di
Domenico Rossetti, il quale in una lettera all'architetto Pietro Nobile aveva
annunziato il sorgere di questo nuovo astro con le seguenti parole: (Vedete,
anchè dal sangue dei Rossetti può nascere un'anima pittorica, e più mi consola,
che se ne fossero usciti sei presidenti e ventiquattro consiglieri aulici. « Se
costei in questa proporzione progredisce fino alla mia età, Trieste avrà almeno
da « gloriarsi di una pittrice che lascierà viva memoria di sè. Ma il tutto sta
nel progredire « veramente. Le donne sono in tutto come le rose : fioriscono
all' improvviso per incantare, « poi restano li per appassire.» Intorno al 1840
convenivano nella casa del mio nonno materno Giovanni Battista Artelli, giunto
qui da Venezia con la famiglia intorno al 1800, tutti gli artisti di
quell'epoca. Egli era amantissimo d'arte e collezionista. Conservo ancora un
vago ricordo de' miei primi anni, il ricordo di grandi teloni che pendevano alle
pareti di casa e che per dissesti familiari e molti altri, che poi questi ve ne
sono riunioni, le quali erano improntate a sano umorismo. Il primo rappresenta
un'adunanza del Consiglio direttivo della Società, l'altro un ricevimento in
onore del pittore Zoccos. Tre gallerie di quadri antichi, delle quali due aperte
al pubblico, contenevano gemme fulgenti furono dovuti vendere. Egli era stato il
fondatore di una piccola società o, meglio, di un cenacolo di artisti che si
radunava in casa sua e dal quale era stato nominato Console delle Belle Arti,
con patente scritta in latino maccheronico. Vice Console era il pittore Dionisio
Zoccos da Zante che viveva per lo più a Venezia, ma veniva spessissimo a Trieste
dove lasciò anche qualche ritratto non disprezzabile. Conservo una distinta dei
soci che componevano quella società; erano in buon numero: Cesare Dell'Acqua e i
due Poiret da Trieste, Giulio Carlini da Venezia, Bartolomeo Gianelli da
Capodistria, l'architetto Giovanni Berlam, i due Gatteri, Giuseppe Capolino,
Edoardo Baldini, Raffaele Astolfi, Domenico Marconetti, tutti da Trieste;
Raphael Jacquemin da Parigi, Giovanni Simonetti da Fiume, Annibale Stratta da
Cagliari e molti altri che poi lasciarono traccia del loro ingegno in un albo
ricco di disegni. Fra due del triestino Giovanni Polli, che danno testimonianza
delle loro riunioni, le quali erano improntate a sano umorismo. Il primo
rappresenta un'adunanza del Consiglio direttivo della Società, l'altro un
ricevimento in onore del pittore Zoccos.
Ricevimento in onore di Dionisio Zoccos.
Tre gallerie di quadri
antichi, delle quali due aperte al pubblico, contenevano gemme fulgenti dei
secoli d'oro dell'arte.
Nicola Lazovich possedeva un Giambellino, un Tiziano, un Caravaggio, un Guercino
e un Claudio Lorenese. Carlo Girardelli vantava altre preziosità del Moroni, di
Guido Reni, di Davide Tèniers, di Rosa da Tivoli, del Cignani, del Padovanino e
del Parmigianino. Alessandro Volpi contava fra le molte tele di grandi maestri
anche un Velasquez. Ma purtroppo tutti questi quadri esularono dalla nostra
città.
Molto importanti erano le
raccolte di quadri moderni, e numerosi i mecenati: Salomone Parente, Leone
Hierschel, Pietro Sartorio, G. G. Sartorio, M. Sartorio, L. Gechter, la contessa
Wimpffen, I. N. Craighero, Carlo Antonio Fontana, G. Haynes, F. C. Carrey, il
conte Waldstein, il barone Lutteroth, Gracco Bazzoni, Carlo di Ottavio Fontana,
Ferdinando De Coll, Cristo Ranieri.
A loro volta altri artisti vennero a dimorare nella nostra città: Carlo Gilio da
Milano, il ferrarese Giovanni Pagliarini, i tedeschi Augusto Tischbein, Augusto
Seib e il bavarese Mayerhoffer.
Francesco Dall'Ongaro fu nel campo artistico il continuatore dell'opera della
Minerva Fondata la Società Filotecnica in unione con Cristo Ranieri, un greco
che a suo tempo aveva frequentato la casa della regina Murat, col capo della
Comunità inglese Giorgio Haynes e con lo scozzese O. Carrey, promosse
esposizioni artistiche che si susseguirono per otto anni. Ne era presidente il
conte Waldstein. Alla prima Mostra del 1840 figurarono più di cinquecento opere
con la partecipazione di Francesco Hayez, di Massimo d'Azeglio e d' Orazio
Vernet. Ma la germinazione artistica era avvenuta e aveva portato i suoi frutti.
A questa mostra si erano presentati altri valenti triestini: oltre al
miniaturista Luigi de Castro e a Lorenzo Butti, Giovanni Madrian e il
capostipite di una dinastia di pittori, i Tominz, l'ultimo rampollo della quale,
Alfredo, della terza generazione, vive sano e vegeto tra noi, nonchè un
fanciullo di nove anni, Giuseppe Lorenzo Gatteri. L'Accademia di Venezia
preparava intanto un'altra covata: i pittori Augusto Tominz, Raffaele Astolfi,
Francesco Guerini, Cesare Dell'Acqua e Giovanni Polli; e ancora Giuseppe
Gallico, Domenico Marconetti, che divennero poi insegnanti, gli scultori Edoardo
Baldini e Giuseppe Capolino, un forte artista che aveva dato sicura promessa di
sè ma che fu colto dalla morte a trent'anni. E poi l'architetto Giovanni Berlam,
capostipite lui pure di una generazione di egregi artisti : gli architetti
Ruggero, suo figlio, e il nipote Arduino ; inoltre il goriziano Antonio Rotta,
il pittore poi tanto in voga per i suoi interni domestici, e il capodistriano
Bortolo Gianelli, pittore di marine. Con Giuseppe Lorenzo Gatteri, Cesare Dell'
Acqua, Giuseppe Capolino e Giovanni Berlam incomincia la nostra era artistica.
La famiglia dei Tominz apre la serie dei pittori triestini, per quanto il più
vecchio, Giuseppe, fosse nato a Gorizia nel 1790; ma stabilitosi nel 1820 a
Trieste, considerò questa la sua città adottiva. Terminati gli studi a Roma, si
dedicò quasi esclusivamente al ritratto nel quale diventò maestro insuperato. Fu
straordinariamente fecondo. Si racconta che durante la permanenza a Trieste
della squadra inglese nel 1830, dipingesse venticinque ritratti di quegli
ufficiali eseguendone uno al giorno. Fra i ritratti suoi più notevoli vanno
annoverati quello del Re di Napoli Gioacchino Murat e quello del Papa Pio VII,
che dovrebbe trovarsi in Vaticano. Alla Mostra del ritratto tenutasi a Firenze
nel 1911 figurarono il suo tanto decantato ritratto del « Nano ostricaro » e
quello della signora Smart di Trieste. Egli fu anche ottimo miniaturista. Suo
figlio Augusto nacque a Roma nel 1818 e mori a Trieste nel 1883. Studiò a
Venezia col Lipparini e col Politi. A loro volta furono suoi scolari i triestini
Giovanni Rota (appartenente a un' altra triade di artisti, il musicista Giuseppe
e il cantante Giacomo) che prese poi dimora a Parigi, e Antonio Valdoni che
esercitò a Milano. Il Museo Revoltella conserva tre quadri di Augusto Tominz ed
è pure dipinto da lui il soffitto della sala da ballo nel palazzo dove ha sede
il Museo, del quale il nostro artista fu conservatore dal 1873 fino alla sua
morte. Era pure segretario della Società di Belle Arti che annualmente
continuava ad allestire le sue mostre e che ebbe vita fino al 1882. Opere sue di
genere sacro si trovano a S. Antonio Nuovo: una S.
Lucia e tre quadri della Via
Crucis.
Era opera sua anche il Martirio di
S. Lorenzo nella Chiesa di
Servola che bruciò nel 1880. Nella Chiesa dei Cappuccini si conserva una Beata
Vergine con varii Santi; a Villa Vicentina dipinse l'Assunta per
la cappella Baciocchi. Lasciò molte opere a Villaco e a Vienna. Esegui un
rilevantissimo numero di quadri di soggetto romantico, in gran voga al suo
tempo, che avevano lo scopo di tener desta la fiamma dell' italianità. Di
ritratti ne esegui un' infinità: si può dire che ogni famiglia ne possieda
qualcuno, oltre alle fotografie, in quel tempo rinomate, che uscivano dallo
studio fotografico che aveva aperto in Piazza della Borsa.
Augusto Tominz era un mordace burlone. Una volta aveva eseguito un S.
Giuseppe per una chiesa
dell'Istria. Pare che prima della consegna del quadro vi sia stato fra lui e il
parroco una divergenza che credo concernesse una diminuzione del prezzo
pattuito. Per vendicarsi il Tominz pasticciò malamente la testa del Santo, poi
inviò la tela a destinazione. Il prete fece qualche protesta intorno a quel
particolare, al che il Tominz rispose che si provasse a ripulire la testa con un
po' di acquaragia. Il parroco esegui l'istruzione e, dopo una buona pulitura, ne
usci fuori un S. Giuseppe con la testa di Garibaldi. Un'altra volta fu un
negoziante montenegrino, l'Opuich , che protestò per un suo ritratto ordinatogli
e che poi non volle accettare. Il Tominz se ne stizzì. Sul ritratto dipinse
delle sbarre di ferro che si incrociavano a quadrati. L'Opuich figurava in
prigione: e cosi fu esposto sotto il pronao della Borsa, dove allora il Rose, il
Rieger, il Grubas, il Malacrea e altri mettevano in mostra i loro quadri.
L'Opuich ne fu avvertito e non frappose indugi nel mandare a comperare il
ritratto. Una bella gli toccò nel 1848, mentre usciva dal Teatro Corti insieme
con suo fratello Raimondo, ch'era stato in origine maestro di musica, ma poi,
divenuto troppo pericoloso per le sue allieve, aveva dovuto cambiar mestiere e
diventare ispettore delle pubbliche piantagioni. Molti devono ancora ricordarlo.
A ottant'anni ne mostrava trenta di meno. Pareva uno zerbinotto. Era di una
vitalità sorprendente, di un umore indiavolato. Marciava d'inverno in giacca con
un bastoncino in mano: pareva che andasse sempre alla conquista di allori
femminili. Mori a ottantasei anni cantando un'aria della Traviata.
Costoro dunque uscivano dal Teatro Corti dopo una riunione patriottica che pare
avesse dato ai nervi del presidente della Camera di Commercio, Vicco. Questo
diede incarico a certo Accerboni di aspettare i due Tominz all'uscita col
mandato speciale di bastonarli. I due, sopraffatti, si buscarono qualche
cazzotto. Intervennero i bochter (specialissimo
vocabolo triestino di quei tempi, storpiatura del tedesco Wächter, cioè
poliziotti).
Bastonati e bastonatori furono scortati al Direttore di Polizia. Gli assalitori
furono condannati a qualche giorno di oscurità, ma dopo qualche ora liberati. I
due Tominz furono consigliati di esulare per qualche tempo. Partirono per Udine.
A Prosecco si incontrarono con lo stesso Vicco e con l'Accerboni. Scesero dalla
carretta, si precipitarono sui due malcapitati e si presero una rivincita ad
usura. Arrivati poi a Udine, il Gazzoletti li accolse e furono festeggiati. A un
banchetto egli lesse una sua poesia che ricordava l'episodio irredentista del
Teatro Corti, i cazzotti e la rivincita. Intanto il gusto e l'interesse per le
arti si accentuavano maggiormente, e aumentavano gli amatori e i mecenati. Dal
1840 al 1880, oltre a Pasquale Revoltella, del quale parlerò poi diffusamente, i
mecenati furono molti.
Il palazzo Brambilla in Via SS. Martiri era divenuto proprietà dei baroni Elio e
Giuseppe de Morpurgo che vantavano nella loro raccolta opere insigni, fra cui
tre quadri di Palma il Giovine.
Raccolte d'arte tenevano pure i baroni Rittmeyer e il barone Lutteroth,
l'Oblasser, il barone Zanchi, il De Coll, il Bontempelli, Giuseppe Sartorio,
Giorgio Galatti, il Kalister, il barone Parisi e Marco Amodeo.
La Società di Belle Arti continuava ad allestire le sue mostre annuali che si
tenevano nella sala della Borsa e poi nel palazzo Revoltella.
Ma un'altra istituzione sorse con intendimenti affini : la Società per l'Arte e
l' Industria. Ne era presidente il barone Reinelt e segretario l'architetto
Giovanni Berlam. Essa promosse l'esposizione che si tenne nel 1871 su quell'area
denominata « Campagneta che dal giardino pubblico andava fino alle alture di Via
Chiozza dove oggi sorge il Politeama Rossetti. In questa esposizione vi era un
po' di tutto e non vi mancava un padiglione per le Belle Arti. Giuseppe Caprin
nel suo periodico intitolato « Libertà e Lavoro » aveva segnalato tra i quadri
dei nostri triestini l'opera di un giovane al quale auspicava un brillante
avvenire.
Il quadro, intitolato Amleto era di Eugenio Scomparini. Il Makart vi aveva
mandato un enorme telone di soggetto fantastico e Antonio Rotta il suo «
Ciabattino, che furoreggiò.
La mostra sotto il pronao della Borsa. Giuseppe Rota.
Gli amatori trovarono poi nei due tedeschi Vendelino e Giuseppe Schollian i
fornitori di quadri per i loro appartamenti. Ambidue tenevano dei locali di
esposizione, l'uno al Corso e l'altro in via del Ponte Rosso, ora Via Roma, e vi
accoglievano le opere dei nostri artisti. Tuttavia la mostra caratteristica
rimaneva ancor sempre sotto il pronao della Borsa. Quel posto era il preferito
dagli artisti e anche non dai più modesti, perché a tutte le ore vi passavano
gli uomini d'affari e... il resto si capisce.
Oltre al Malacrea, vestito alla fiamminga, che esponeva le sue frutta e i suoi
fiori, v'era il Grubas che dipingeva vedute di Venezia, il Rose autore di
quadretti satireggianti i nostri contadini e certo Tumme che faceva il paio col
Malacrea descritto dal Caprin.
Questo Tumme era un tedesco e parlava un triestino sassone composto di voci
peregrine di un'armoniosità poco comune. Il nostro dialetto che più di una volta
aveva dovuto subire le carezze linguistiche dei nostri padroni d' un tempo e dei
nostri vicini, dovette certo meravigliarsi delle proprie elastiche qualità di
adattamento nel servir da incrocio a un gergo che rassomigliava molto
all'abbaiar dei cani e a certi suoni che parevano uscir dalla bocca del Tumme
come da una catapulta. Egli abitava una soffitta rischiarata da un grande
abbaino. Di mobili non vantava un gran lusso: un canterano, nei cui cassetti
erano riposti alla rinfusa sacchetti di colori, fiaschette d'olio, un macinino,
dei frammenti di budella per insaccare i colori preparati, dei pennelli
induriti; un tavolo aveva chiesto l'equilibrio a una parete alla quale era
addossato; alcune scranne capaci di tradimento verso chi si fidasse troppo delle
loro staticità. Un'abbondante nevicata di polvere dava un' intonazione grigia a
tutti gli oggetti, perfino a un vecchio cane che sonnecchiava in un canto; un
panchetto faceva argine a un mucchio di rifiuti. Sulla parete triangolare del
fondo stava inchiodata una lunga fascia di tela, divisa in tanti rettangoli. In
ognuno di questi egli dipingeva un quadretto. Non era specialista in un genere
solo ma, da eclettico, eseguiva paesaggi e marine, nature morte, fiori, scene
campestri, allegorie. Procedeva cosi : preparava diversi pentolini di colori che
servivano per l'acqua, per l'aria o per il color locale e li distendeva
simultaneamente su tutte le parti che quei dieci soggetti richiedevano. Poi
finiva ciascuno a sè con un' abilità e rapidità straordinarie, curiose a
constatarsi ancora oggi. Terminato il quodlibet lo
portava tutto d'un pezzo al posto dell'esposizione e vi si metteva di fianco
rimanendo in attesa come fa l'uccellatore. Il cliente, prima o dopo, ne era
adescato ed egli con le forbici tagliava fuori a richiesta sia la natura morta,
che il paesaggio o l'allegoria.
Francesco Beda conobbe da ragazzo questo bel tipo, che andava a trovare di
quando in quando. Era un pezzo d'uomo alto e forte e già oltre la settantina. Da
buon tedesco era entusiasta della musica e quando l'ascoltava, per godersela
meglio, si ficcava il dito pollice della mano destra in bocca e lo succhiava e,
come correva sempre in cerca di delizie musicali, il suo dito portava visibili
tracce di corrosione. Viveva solo, ma oltre al vecchio cane che gli faceva
compagnia dormendo, teneva un merlo che saltellava per lo studio e aveva una
spiccata predilezione per quel mucchio di scopature che talvolta diventava
montagna. Era là che l'uccello si spassava e un po' col becco, un po' con le
zampe si ingegnava di far ritornare al posto di origine ciò che la scopa aveva
avuto cura di ammucchiare. I veri padroni di casa erano però i topi che vi
regnavano dispoticamente. Per rabbonirseli e perché non gli rosicchiassero le
tele, aveva gran cura di far trovar loro ogni terzo giorno dei saltimpanza
(panini dolci) freschi. In cambio le bestiole non trovavano altra maniera di
dimostrare il loro gradimento che saltando insolentemente sulle ginocchia di
quei visitatori che si soffermavano più di un quarto d'ora nello studio. Il suo
orologio a pendolo era un capolavoro d'ingegnosità. I cilindri metallici che lo
facevano camminare, col tempo, chi sa come, erano spariti. Il Tumme, da uomo di
metodo, insofferente di inesattezze, alle quali la mancanza di un orologio
avrebbe potuto farlo incorrere, li aveva sostituiti con due bottiglie di forma
differente che già avevano contenuto del vino Terrano » per il quäle aveva una
spiccata predilezione, e l'orologio non si era punto accorto di essere messo in
moto dai due fiaschetti d'acqua, ai quali il Tumme dava la piena quando
necessitava. Aveva poi una fisionomia caratteristica: le labbra incorniciate da
due grossi mustacchi bianchi, che portavano costantemente tracce di umidore
anche nei giorni di gran bora. Per un difetto delle glandole, aveva una
salivazione abbondante, e distribuiva a destra e a sinistra costantemente delle
spruzzatine, senza far caso se a riceverle fosse la sua grande tela o il
canterano o il malcapitato visitatore che si trovava a portata. Tanto è vero -
raccontava il Beda - che più di una volta rincasando dopo una visita fattagli,
portavo le tracce di quel secondo battesimo ed era mia madre ad accorgersene,
perché mi redarguiva : «Ti xe sta ancora da quel vecio pitor tedesco, xe vero ?, e prendeva una pezzuola e mi asciugava.. Non aveva delle abitudini speciali
nel vestire, portava la giacca del taglio di quel tempo abbottonata fino al
mento. Appariva decente. Solo forse i suoi indumenti intimi accusavano qualche
leggero inconveniente. Mutava di camicia solo quando aveva bisogno di uno
straccio per pulire i pennelli. Vendeva abbastanza bene i suoi quadretti. Da
ultimo trovò uno che ne fece incetta insieme con quelli del Malacrea, cioè quel
libraio Czerwinsky, al quale successe poi lo Schimpff in Piazza della Borsa.
Dopo il 1860 il numero dei nostri artisti si era accresciuto di molto. Oltre al
Gatteri, al Berlam, al Capolino e a Cesare Dell'Acqua, che lasciò Trieste in
quel torno di tempo per stabilirsi nel Belgio, si notavano il Collamarini, il
Moretti, il Fabretto, lo Hönigmann, lo scultore Cameroni, l'Acquarolli, lo
Zuccaro, il Marconetti, il Cortivo e gli scultori Spaventa e Depaul: tenevano
convegno al Caffè Chiozza. Altri vivevano separati, come l'Astolfi, il
Mayerhofer, il Baykoff, l' Haase, il Fiedler, l' Höning, questi ultimi tutti
stranieri.
Giulio Carlini da Venezia vi faceva annualmente delle soste abbastanza
prolungate ed eseguiva ritratti. Cosi fu poi di altri due ritrattisti: il Sorio,
veronese, e il pastellista Della Valentina.
Pasquale Revoltella. (Da una litografia di Kriehuber - Vienna 1855).
Pasquale Revoltella, mecenate e filantropo per eccellenza, fu il più gran
signore che abbia avuto Trieste. Nato a Venezia nel 1795, apparteneva a una
famiglia umile e poverissima di macellai, nella parrocchia di S. Geremia.
Rimasto orfano di padre fin da bambino, fu la madre Domenica che con stenti lo
allevò, supplendo come potè alla sua istruzione che allora era troppo difettosa
nelle scuole. La sua infanzia fu rallegrata da questo affetto materno, che gli
lasciò memoria di gratitudine e di venerazione e impresse un tratto
caratteristico alla sua vita.
Venne qui nei primi anni del 1800. Dopo dure prove, seppe farsi strada da sè,
fondò una casa di commercio che importava legnami e granaglie e col tempo si
arricchì a dismisura.
Vado debitore di gran parte di queste notizie all'amico Alfredo Tominz, che le
seppe per bocca di suo padre il quale visse molto vicino al Revoltella, come
pure da suo zio Carlo Marussig, che fu uno dei procuratori della ditta. Abitò la
casa Fontana in Piazza del Sale fino a che non fu compiuto il palazzo che stava
costruendogli l'architetto Hitzig di Berlino, autore del teatro reale di Dresda
Il palazzo fu inaugurato nel 1858 con un gran ballo al quale intervenne anche
l'arciduca Massimiliano, allora governatore della Lombardia. Fu un animatore di
tutte le arti; letterati, artisti e scienziati furono da lui splendidamente
onorati. Fu un impareggiabile suscitatore di energie. Fondò con Francesco
Gossleth la Scuola Triestina di disegno che prese poi il nome di Banco Modello.
Francesco Gossleth era falegname edile. Gran parte del mobilio del palazzo
Revoltella e del castello di Miramare è opera sua. Abitava nel suo palazzo di
via Bellosguardo, oggi proprietà del barone Leo Economo nel Viale della III
Armata. Armonia, ribattezzato poi Teatro Goldoni e malauguratamente demolito ai
nostri giorni. Creò e finanziò la Compagnia Drammatica Bellotti-Bon e si era
quasi accordato con Gustavo Modena per istituire a Trieste un teatro stabile di
prosa, progetto questo che poi, non so per quale ragione, non potè essere
effettuato. Nel suo palazzo si succedevano feste, balli, grandi ricevimenti ai
quali partecipavano le famiglie più cospicue della città. Balli, feste e fiere
di beneficenza a pagamento si alternavano con grande larghezza ed il ricavato
andava per lo più devoluto all' Istituto di Beneficenza del quale fu uno dei
fondatori e per il cui incremento nessuno contribuì quanto lui.
Ebbe sempre parte
attivissima come presidente nelle esposizioni annuali della Società di Belle
Arti. Erano di casa sua i pittori Butti, Haase, Augusto Tominz, lo scultore
Bottinelli, Pizzolato, Gioacchino Hierschel (in arte Van Hier), ottimo pittore
di marine, e lo scultore Depaul.
D'estate partiva per le spiagge nordiche di Ostenda, del Belgio, della Francia e
terminava solitamente a Parigi, viaggiando sempre nella sua berlina, fornita
persino della cucina e di ogni sorta di comodità. Talvolta villeggiava al
"Cacciatore", nel suo casinetto rustico, in mezzo al magnifico parco, affidato
alle cure di un sapiente e rinomato giardiniere, Severino Milanese, che fra le
piantagioni più rare coltivava nelle serre quei famosi ananas che comparivano ai
grandi pranzi del signore. In questo parco fu terminata di costruire nel 1867 la
cappella dove dovevano riposare i suoi resti mortali accanto a quelli della
madre, provvisoriamente collocati sotto l'altare della Beata Vergine delle
Grazie da lui fatto erigere nella Chiesa dei Gesuiti (S. Maria Maggiore).
Tutto ciò che questo magnifico e munifico Signore operò - scrive l'abate Luigi
de Pavisich - fu a incremento e decoro della sua città di adozione. Fu per sua
iniziativa che sorse il grande albergo Hôtel de la Ville, dapprima nominato
Metternich. Fu uno dei promotori e il più forte azionista nella costruzione del
Tergesteo, della Villa Ferdinandea, del Bersaglio, del Teatro Armonia, dello
Stabilimento Tecnico Triestino e della fabbrica di birra Dreher.
Alle chiese non diede soltanto il suo obolo, ma molte devono a lui gran parte
delle ricchezze in esse custodite. Contribuì con ingenti somme all'erezione
della Chiesa dei Cappuccini. Donò un ostensorio e molti arredi sacri, che erano
stati rubati poco prima, alla Chiesa di S. Maria del Soccorso, facendovi pure il
pavimento di marmo. Fu munifico verso i Conventi delle Monache Benedettine di
Trieste e dei Francescani di Capodistria, nonchè verso altri dell'Istria, della
Dalmazia e della Bosnia e verso quelli delle Servite Eremitane Scalze di Venezia
e di Chioggia. Si deve pure alla sua generosità se la Chiesa di S. Geremia a
Venezia, dove il Revoltella fu battezzato, può vantare quella magnifica facciata
ed il sontuoso pavimento. Volle che la Chiesa dei Mechitaristi di Trieste avesse
il suo organo. Donò lampade d'argento e un baldacchino alla Chiesa di S. Giacomo
Una lampada ricchissima donò pure al convento di Ramie in Terra Santa. Altre
chiese del Friuli, del Goriziano, del Trevigiano, di Spalato, di Prevesa, di
Antivari, della Turchia, della Svizzera, quella votiva di Vienna, ebbero da lui
doni e contributi.
Ma sopra tutto gli istituti di beneficenza furono sempre da lui prediletti.
Contribuì largamente all'erezione del nostro Civico Ospedale. A lui devono
riconoscenza 1'Ospedale Infantile, la Società di Mutuo Soccorso per Infermi,
l'Istituto dei Sordomuti di Gorizia, quello delle Pericolanti di Venezia, degli
Orfani dei Pescatori di Chioggia e delle Convertite e Scarcerate. Fece generose
elargizioni per il riscatto dei fanciulli cristiani in Turchia e per i neofiti
maomettani ed israeliti.
Molte cose utili alla cultura morale e intellettuale della sua cara Trieste ideò
e compi, e fra le altre menzionate è, si può ben dire, opera sua la Scuola
Superiore di Commercio oggi Regia Università di Scienze Commerciali, che,
secondo il suo testamento, doveva intitolarsi « Fondazione Pasquale Revoltella
». Da lui venne edita in 10.000 esemplari l'elegante Guida in lingua italiana,
tedesca e inglese Tre giorni a Trieste, scritta dal Formiggini, dal Kandier,
dallo Scrinzi e da lui stesso e pubblicata in onore dei delegati della Società
delle Ferrovie che nel settembre 1858 si riunirono a Trieste. Apprezzando i
sommi vantaggi che alla nostra città apportava il Taglio dell' Istmo di Suez, ne
fu a Trieste il primo e caldissimo propugnatore : perciò la Società lo acclamò
riconoscente suo Vice Presidente, e quindi, quale Presidente della Camera di
Commercio, fece parte della Commissione che doveva riunirsi in Egitto col
Lesseps per trattare di quella grande impresa.
Pasquale Revoltella era celibe: un bellissimo uomo, alto e imponente di persona
e vivacissimo di modi. Pareva una figura napoleonica, elegante e irreprensibile
nella sua redingote color noce, i calzoni attillati, il panciotto a fiorami e la
tuba di castoro. Suoi amici inseparabili erano il barone Hierschel, Pietro
Kandier, i Sartorio e de Minerbi. In sul mezzogiorno arrivava al suo posto di
osservazione dinanzi al negozio Tropeani, in Piazza della Borsa. Non conosceva
il francese, ma al passaggio di qualche bell'esemplare femminile faceva scappar
di bocca due o tre paroline in quella lingua. Fu un grande conquistatore di
cuori femminili e vuolsi che di molti abbia avuta assoluta padronanza. Ai suoi
pranzi ristretti conveniva anche quell'ineffabile e dotto medico che portava il
nome di dottor Alessandro de Goracuchi e che quarant'anni or sono camminava
ancora per le vie di Trieste a tutte l'ore in marsina, con largo sparato della
camicia e i polsini a bracchette.
Costui faceva sempre molto onore alla tavola del Revoltella, che quand'era di
buon umore si spassava delle sue trovate più o meno scientifiche. Il dottor de
Goracuchi, quando s'assideva a tavola poneva il suo gibus a terra, fra i piedi.
Ciò che non arrivava ad ingoiare, lo faceva pian pianino scivolare dal piatto
nel suo cappello. Il Revoltella mandò a studiare all' Accademia di Venezia i
pittori Francesco Beda e Alberto Rieger e fu il protettore di Cesare Dell'Acqua
e di Giuseppe Lorenzo Gatteri.
Mandò la figlia del suo maggiordomo, Rosina Voena, cremonese, a studiare il
canto al morte di lui, vennero a mancare alla protetta i mezzi necessari per la
continuazione degli studi, fu il barone Giuseppe de Morpurgo che continuò a
sussidiarla. Essa divenne una cantante celebre e con la famosa Kupfer esordi
all'Apollo di Roma.
Durante la catastrofe del 1860 e lo scandalo delle forniture nella guerra
d'Italia del 1859 sorse un sospetto di correità anche su Pasquale Revoltella che
fu deferito al Tribunale di Vienna; egli però fu assolto da ogni imputazione per
mancanza di prove, e un anno dopo nominato barone.
Pasquale Revoltella mori nella sua villa «al Cacciatore » nel settembre del 1869
a 74 anni. La salma venne trasportata in città ed esposta nella grande sala del
secondo piano del suo palazzo, convertita in cappella ardente. Tutta Trieste
prese parte ai suoi funerali.
In lui la città nostra perdette un distinto e benemerito cittadino, - scrive un
giornale del tempo - che anche dalla tomba con la generosa eloquenza delle sue
beneficenze e dei suoi provvedimenti pare che imponga silenzio a ingiusti
avversari, ed ecciti i migliori a seguire il suo esempio. Ultimo monumento che
egli pose a se stesso è il suo testamento. Da esso vedesi come egli amava la
nostra città, come ne desiderava il progresso, la prosperità, il decoro. Quanti
seppero, quanti sanno fare altrettanto? La pratica delle mercature fu il campo
dove egli colse tesori. Con la moderazione e con la rettitudine arricchì per
arricchire gli altri, per largheggiare coi poveri, per promuovere utili e
pratiche istituzioni, e da vero mecenate, allogando lavori d'arti belle,
incoraggiando chi per l'arte sentiva in sè ardere la scintilla dell' ingegno.
Ebbe per la madre un potente affetto e fu la sola donna che egli amò davvero. Al
posto della casa meschina ove egli passò con essa i primi anni di vita nella più
pura armonia di affetti, elevò più tardi all'Armonia: un elegantissimo teatro, e
la casetta prossima ai suoi magazzini fu poscia da lui convertita in un palazzo
che per magnificenza, splendore e sontuosità è il gioiello della nostra città.
La solennità alla quale andiamo incontro, quale è appunto l'inaugurazione del
canale di Suez, ricorderà a onore e speranza di Trieste la parte vivissima che
egli prese in quest' opera di civiltà. Fu sua madre che sempre lo incitò e
incoraggiò a non disperare di se stesso, a ripromettersi tutto dalle proprie
risoluzioni ed a formarsi quella temprata energia dell' indole che lo distinse
poi in tutto il corso della sua vita. Fu acclamato padre dei poveri e con
gentile pensiero li volle sempre partecipi nelle feste della carità. Fu
religioso ma senza ostentazione ed egli si era preparato già da lunga pezza con
filosofica e cristiana rassegnazione a rinunciare alla vita presente.
Egli lasciò erede il Comune del suo palazzo con tutte le collezioni d'arte,
numismatiche, libri, mobili, a condizione che questo venisse convertito in un
Museo di Belle Arti, e vi aggiunse una generosa dotazione. Mercé la generosità
di questo suo figlio adottivo oggi Trieste può vantare una istituzione che è di
gran lustro e decoro del paese: il Civico Museo Revoltella. Per la saggia
amministrazione del capitale fondazione, dovuta ai suoi Curatori, esso potè
arricchirsi in seguito di opere egregie.
Spero che questo Museo, - egli scrive nel suo testamento - prenderà gradatamente
quello sviluppo, che è nelle mie migliori intenzioni, e che il Municipio non
gravato da altre spese, tranne quelle d'imposta, di custodia, della
conservazione dello stabile e degli oggetti, vorrà secondare le mie speciali
raccomandazioni, dedicando la sua premurosa sollecitudine ad un istituto che
tornerà ad ornamento e decoro di questa città tanto da me affezionata. Lasciò
inoltre un capitale di tre milioni di fiorini in legati e opere di beneficenza a
Trieste e a Venezia.
Non dimenticò la Chiesa di S. Geremia in quest'ultima città, lasciando un
rilevante importo destinato all'ultimazione della medesima. Il podestà dott.
Massimiliano d'Angeli, commemorando il trapassato in una seduta del Consiglio
Comunale, deplorò la perdita di un uomo sotto ogni titolo meritevole della
riconoscenza della città, il quale, sebbene non nato a Trieste, diede le più
ampie prove di affezione e di simpatia a questa città, ed anche morendo volle
darle testimonianza del suo affetto.
(C.W.)
"Isolato dei Berlam". Grattacielo di Arduino e Palazzo Gopcevic di Giovanni Andrea
Arte a Trieste tra Otto e Novecento
Paolo Marini
Alla metà esatta
del XIX secolo Giovanni Andrea Berlam fissa l'esordio dello storicismo eclettico
in Trieste, elargendole il primo prospetto rinascimentale sul Canal Grande nel
colorismo veneto del Palazzo Gopcevic. Radioso e conciliante, inaccessibile alla
banalizzazione, sarà lo stimolo esemplare per gli architetti delle generazioni
successive, almeno fino a quella del nipote Arduino, che un'ottantina d'anni più
tardi salderà a questo fabbricato il fervore policromo del suo 'Grattacielo'
sancendo un'ideale continuità di visione trascendente l'evolversi dei modi e
delle mode. Che sono stati tanti.
Trieste, Chiesa Evangelica Augustana
Trieste, Tempio Serbo-ortodosso
Il revival del Gotico – ortodosso o composito – e la fascinazione per l'Oriente (testi essenziali: la Chiesa Evangelica Augustana, il Castello di Miramare e il tempio Serbo-ortodosso) preparano la strada al più coraggioso intervento monumentale nella città: il progetto della nuova Piazza Grande.
Trieste, Municipio
Trieste, Palazzo Modello
Così, nel 1875, Giuseppe Bruni, dopo il brillante assaggio angolare del Palazzo Modello, darà al Municipio il magnifico apparato di chiaroscuri e torre che resterà per sempre a sigillo della prosperità dell'emporio nel pieno della sua ascesa.
Trieste, Palazzo Lloyd Triestino
Trieste, Prefettura
Sulla platea, finalmente aperta al mare, ulteriori istanze stilistiche metteranno poi a confronto le sedi del Lloyd Triestino e della Luogotenenza; ma affinché questo accada si dovrà oltrepassare la soglia del nuovo secolo. Nel frattempo, Ruggero Berlam onora il padre dando corpo al sogno della renovatio urbis tra colpi di teatro (comunque perdonabili come peccati di generosità) e atti di autentica poesia architettonica. Nutrito dell'insegnamento neomedievalista di Camillo Boito all'Accademia di Brera, sarà ricordato dagli storici soprattutto come l'artefice del risarcimento italianizzante per una città che – come è noto – languiva nell'inazione mentre la civiltà dei Comuni stava fornendo al Paese il suo lineamento edilizio forse più genuino (quella che il Boito definiva la 'maniera municipale del '300'). Casa Leitenburg (1889) avrà in tal senso la forza di una dichiarazione d'intenti, oltre che di stile: lo si definisca fiorentino o centroitalico, resta in grado di operare una vera e propria sospensione d'incredulità, tanto più straniante quando se ne valuti l'impatto nella sua ubicazione assai lontana dal centro storico. Il merito specifico delle creazioni del Berlam risiede a ben guardare in questa loro singolarissima capacità di irradiante integrazione dialettica nell'assetto urbano. Progressivamente, e in una continua diversificazione delle proposte stilistiche che accetteranno via via il lessico rinascimentale, manierista e barocco, i suoi progetti tenderanno a conferire tono e atmosfera ai luoghi cittadini quasi a prescindere dal rispetto o dallo sprezzo delle preesistenze, e come se possedessero il dono d'improntare i rioni con risorse di gran lunga maggiori rispetto a quelle limitate nella mera dimensione catastale. Il fascino di questi progetti nasce dalla loro concezione intimamente medievaleggiante – apporti a una città da comporre, da dipingere pezzo per pezzo – e non da una verniciatura indistinta, o proditoria, di secondo livello.
Trieste, Case Aidinian, via Benedetto Marcello
La 'città della' Aidinian (cinque fabbriche sulla pendice occidentale del colle di san Vito culminanti in un blocco-fortezza munito di quattro inconfondibili torrette di spigolo),
Trieste, Palazzo Vianello
il palazzo Vianello con la sua cornucopia di applicazioni scultoree, la Scala dei Giganti modellata in una sorta di antropomorfismo presurreale, sono le tappe fondamentali di questo itinerario.
Trieste, Palazzo RAS
Trieste, Sinagoga
In seguito, nel periodo della piena maturità, il contributo del figlio Arduino sarà prezioso per l'elaborato più calibratamente spettacolare di organismi in cui la magniloquenza delle facciate varrà da preludio a una coltissima orchestrazione cromatica e ornamentale degli interni: il Tempio Israelitico (1912), dove la vena storicistica si avvale di sapienti recuperi archeologici, e la sede per la Riunione Adriatica di Sicurtà (1914), curata in ogni singolo dettaglio d'arredo, dai ferri battuti agli stucchi, dalla boiserie alla mobilia, per non parlare della formidabile fontana col Gladiatore realizzata in marmi assortiti dal fedele collaboratore Gianni Marin.
G. Marin, Fontana
del Gladiatore
Forse anche in ragione di tale patronato ( Raimondo D'Aronco ebbe a definire i
Berlam "padreterni dell'architettura") il gusto Art Nouveau s'inserì nella
facies urbana con spirito più di protocollo burocratico che di effettivo
ammodernamento, a meno che il demone dell'horror vacui non
moltiplicasse i segni convenzionali dello stile in un parossismo decorativo
abile a ritrovare proprio nell'eccesso una paradossale freschezza (Casa Smolars
di Romeo Depaoli, 1907).
Trieste, Casa Smolars
Trieste, Narodni Dom
Ma le voci dei giovani forti di un bagaglio culturale aggiornato all'indirizzo viennese della Wagnerschule fanno da contraltare all'eclettismo in una maniera appena poco meno che sorprendente; ed ecco in Max Fabiani, Giorgio Zaninovich e Umberto Fonda la declinazione dello Jugendstil secondo cifre di volta in volta ascetiche (la Narodni Dom che porge la guancia al citato Palazzo Vianello;
Trieste, Casa Bartoli
Trieste, Casa Valdoni, particolare
Casa Bartoli che – perlomeno nell'aspetto odierno – si ricorda di essere floreale giusto nei festoni che scrosciano dalla cimasa), 'debussiane' (Casa Valdoni in via Commerciale, sognata con un piglio vagamente fantascientifico) oppure, ed è il meriggio più terso, di aurea prosodia
Trieste, Casa Fonda, angolo via Navali via Segantini
(case Fonda agli incroci
Carpison/san Francesco, Testi/Galleria e soprattutto sull'angolo
Navali/Segantini, baciato dall'ispirazione del capolavoro).
Come nell'architettura, così nella pittura. Smessa l'attrazione per la
classicità, la nuova generazione, per un certo tempo non ancora incline a
seguire percorsi di formazione alternativi al collaudato magistero delle
accademie veneziana e viennese, attinge agli spunti trovati ora in un passato
più recente e ricco di linfa coloristica, ora più semplicemente nella realtà,
apprezzata in quanto tale e indagata con crescente amore della verosimiglianza
ottica.
E. Scomparini, Il Genio incorona la Musica
Eugenio Scomparini (1845-1913) può considerarsi l'iniziatore di questa nouvelle
vague; di fatto, sarà la figura dominante nell'ambiente artistico triestino,
quella con cui, in un modo o nell'altro, si sarebbero dovuti fare i conti. Una
pittura, la sua, che agli occhi della committenza altoborghese o istituzionale
doveva apparire il non plus ultra del 'bel decoro', tra pompa e circostanza,
sfondati tiepoleschi - opportunamente modernizzati con un pittoricismo dedotto
dal Fortuny – e ritrattistica delle grandi occasioni.
E. Scomparini, Se mi vedesse
E. Scomparini, L'Odalisca
E. Scomparini, Ritratto di Margherita Gauthier
Malgrado la sua fama riposi in particolare sulle sgargianti icone femminili (sia pure per opposte ragioni, è difficile non cedere al fascino della Margherita Gauthier o della fraschetta che maliziosamente fantastica Se mi vedesse...) e i cicli allegorici di un Olimpo sempre piuttosto bene in carne, gli spiragli di maggior interesse sulla sua anima di pittore sono concessi dalle opere a dimensione di miniatura o poco più, dove la tecnica sempre squisita si rende traslucida a un soffio di poetica intimità (la Signora in abito bianco con cane, l' Odalisca).
G. Barison, Autoritratto
Meno sofisticato e più raffinato al tempo stesso si manifesta Giuseppe Barison
(1853-1931), nei cui dipinti – essenzialmente ritratti, marine, scorci
paesaggistici e d'interno – circola un lume adamantino che asseconda gli accordi
di fragranti cromie, nella concentrazione di un silenzio da controra. Artista
assennato per il quale l'insorgere dell'Impressionismo dovette apparire
assolutamente logico e doveroso, piuttosto che scandaloso e inintelligibile.
G. Barison, Quasi oliva speciosa in campis (particolare)
L'occasionale frequentazione del soggetto sacro gli farà inoltre consegnare alla città (per una volta sia consentita l'iperbole) la più bella e intensa immagine devozionale dai tempi della vestizione musiva capitolina, quella Quasi oliva speciosa in campis esposta a Monaco nel 1899 e ivi acquistata dall'architetto Giacomo Zammattio.
G. Barison, Veduta di Pegli
Monaco, appunto. Agli inizi degli anni '80 alcuni ragazzi cui i consueti
circuiti di apprendistato risultavano ormai troppo ristretti, compiono il gran
salto e scelgono la capitale bavarese per il perfezionamento degli studi. Vi
menano, com'è prevedibile, vita bohemienne e assorbono le suggestioni
dell'Impressionismo attraverso la vulgata fattane da pittori quali Max
Liebermann, oltre al richiamo courbetiano verso la raffigurazione del vero come
recepito da un Wilhelm Leibl; né trascurano l'esempio degli illustri modelli
seicenteschi, da Rubens a Velazquez a Rembrandt, interiorizzato oltre che per
visione diretta anche grazie alle fiammeggianti revisioni del von Piloty o del
Lenbach.
I. Gruenhut, Caricatura di Carlo Wostry
Tre sono i pittori che dal soggiorno monacense trarranno speciale partito: Carlo
Wostry (1865-1943), Isidoro Gruenhut (1862-1896) e Umberto Veruda (1868-1904).
C. Wostry, Autoritratto
Figura quanto mai versatile, ricca di un talento che avrà modo di esprimere con
la penna oltre che col pennello (sua la Storia
del Circolo Artistico di Trieste), Wostry incontrerà tuttavia nel suo stesso
eclettismo l'ostacolo principale a fissare un proprio canone d'individualità.
C. Wostry, Caricatura di Isidoro Gruenhut
C. Wostry, Caricatura di Marcello Dudovich
C. Wostry, Caricatura di Umberto Veruda
Per giunta, una disposizione conservatrice molto meno recondita di quel che potrebbe sembrare gli impedirà di mettere a frutto le ulteriori esperienze straniere (quella parigina in primo luogo), che non varranno a superare la qualità dei risultati raggiunti dalle opere compiute entro il penultimo decennio del secolo.
C. Wostry, Ritratto di Giuseppe Garzolini
C. Wostry, Ritratto di Pietro Sartorio
Licenziate nel 1887 le quattordici vaste tele della Via Crucis per Santa Maria Maggiore, invero degne di nota per il costruttivo svolgimento della materia chiaroscurale, stabilisce il suo primato in alcuni vigorosi ritratti 'larger than life' (Giuseppe Garzolini, buia sagoma ritagliata all'impiedi contro tenue fondale, Pietro Sartorio nerovestito, assiso fra un tripudio di tappeti e broccati) e sfiora il capolavoro nel modernissimo Autoritrattoin controluce.
C. Wostry, Martirio di san Giusto
Da questo momento, sfrangia il percorso in un'esuberanza un poco fine a se stessa, per quanto non venga a mancare la possibilità di isolarvi attimi di indiscussa riuscita, come nel toccante Martirio di san Giusto, cui spetta l'onore dell'ostensione basilicale, o nella maliarda grazia neorococò della Scena boschereccia, o ancora nella calorosa istantanea del Quartetto triestino.
C. Wostry, Scena boschereccia
C. Wostry, Fede servita da Penitenza e Carità
Eccezioni a una torpida
regola. Quando poteva già essere troppo tardi, eccolo però escogitare un
riscatto retrospettivo quanto meno curioso. 1924, chiesa di San Vincenzo de'
Paoli: se per l'anagrafe stilistica l'affresco della Fede
servita da Penitenza e Carità non
esce dalla tassonomia di un generico preraffaellismo all'italiana, la sincera
contrizione d'una mano messa al cuore prima ancora che agli strumenti del
mestiere compie il piccolo miracolo, arresta l'obsolescenza e accorda
all'impresa la Salvezza di
un equilibrio finalmente atemporale.
Tempra più coerente quella rivelata dal Gruenhut, morto a Firenze a soli
trentadue anni, non prima, comunque, di aver profuse le sue doti eccezionali in
pitture dove semplicità e pregnanza di visione concertano una sintesi altrove
irreperibile nella pittura nostrana dell'epoca, e forse non solo.
I. Gruenhut, Ritratto di Umberto Veruda
I. Gruenhut, La bambola
Due sono sufficienti a definire la grandezza di questo artista che Wostry con ironico affetto soleva soprannominare 'il Gobbo': il Ritratto di Umberto Veruda, essenziale quanto erudito, omaggio tra i più spettabili mai tributati a Velazquez, e La bambola, il cui fatato stupore non sarebbe dispiaciuto, si può credere, al giovane Edvard Munch.
U. Veruda, Sii onesta!
U. Veruda, Terzetto
Vita breve e talentuosa, quasi atto di solidarietà col destino dell'amico
Gruenhut, toccò pure al Veruda, salutato ai tempi come il più audace innovatore
tra i locali. Sodale di Svevo, cui fungerà da modello per lo Stefano Balli di Senilità,
dandy irrequieto, delizia dei caricaturisti, sarà in grado di destreggiarsi con
slancio appassionato tra le sirene della mondanità (la perfetta fotografia belle
époque del Terzetto, i
fruscianti ritratti di dame e maggiorenti – servano a esempio quello di Nina
Janesich Rusconi per le prime;
U. Veruda, Ritratto di Nina Janesich Rusconi
U. Veruda, Ritratto di Delfino Menotti
U. Veruda, Ritratto di Guido Grimani
del baritono Delfino Menotti per i secondi – oltre che di colleghi, tra i quali è doveroso ricordare la sopraffina effigie di Guido Grimani) e un patetismo 'larmoyant' sempre e comunque temperato dalle ragioni della pittura autentica: si apprezzino la sorprendente litote del Sii onesta!, acquistato con lungimiranza dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, e la bruna massiva partitura del De profundis.
U. Veruda, Fondamenta a Burano
U. Veruda, Nudo di schiena
Nelle ultime opere si accentua l'emancipazione del tocco: conquista ben visibile in modi virtuosistici nelle Fondamenta a Burano, ma affatto inediti nel frazionamento pulviscolare del Nudo di schiena, impegnativo ed enigmatico saggio di gusto addirittura sperimentale, quasi caleidoscopio postimpressionista, non a caso raccolto, alla morte dell'artista, dall'amico Italo Svevo.
A. Fittke, Fanciulla con bimbo
La scomparsa altrettanto prematura di Arturo Fittke (1873-1910) fu tragedia
anche più dolorosa: incapace di pervenire a un armistizio con i suoi fantasmi,
si diede la morte con un colpo di pistola. Schivo, modesto, rimase ignorato da
quel successo di cui, in diversa misura, poterono invece beneficiare parecchi
suoi colleghi; sfibrato dall'assillo di carpire alla natura i segreti della
luce, circonfuse d'un alone tutto introspettivo la visione impressionista,
appresa, come oramai era prassi, in quel di Monaco. Impressionismo sussurrato a
fior di labbra, crepuscolare persino in pieno sole, e carico di trattenuta
afflizione. Stringata la gamma dei soggetti: ritratti (per lo più teste, e in
massima parte di bambini), cantucci fioriti, spicchi di paesaggio.
A. Fittke, Funerale del bambino (1909)
Se insorge la tentazione della 'scenetta', originalità compositiva unita a struggente lirismo di illuminazione scongiurano il rischio del disimpegno interlocutorio: il Funerale del bambino (1909), col suo taglio fotografico accarezzato di chiarore 'plein air', sta a provarlo in umile solennità.
"Aristocratico distacco" è formula nel complesso azzeccata per inquadrare la
figura di Arturo Rietti (1863-1943), a patto che la si spogli di connotati
snobistici e la si riconduca all'elezione di una nobiltà schiettamente sentita.
A. Rietti, Donna che legge
Pastellista provetto (poca pittura a olio nella sua produzione), attratto dalla Scapigliatura lombarda, trae da questo medium difficile ed elitario effetti di soggiogante ricercatezza, in una trama d'atmosfere prossime al versante più psichico e notturno del Simbolismo europeo: la Donna che legge ne sonda con scaltrita affabulazione gli esoterici territori.
A. Rietti, Dalla terrazza di Palazzo Carciotti
La concretezza tutelare dell'ammiratissimo Degas lo riaccompagna, talora, verso esiti meno capziosi. Come capitava agli stessi simbolisti, Rietti è poi anche in grado d'intuire l'avanguardia: un cosino di quadretto (parlando beninteso di dimensioni!) quale Dalla terrazza di Palazzo Carciotti, trattato a grossi fiotti di materia, proclama un abbandono pressoché astrattista;
A. Rietti, Veduta di Barcola
la Veduta di Barcola incorniciata entro il controluce d'una balaustra si approssima al Balla delle prove precedenti d'un millimetro la sintesi futurista. Coincidenze? Sicuro. Per singolare presa di posizione, il nostro si professa infatti ostile sia all'accademia sia agli "ismi" di rottura.
A. Rietti, Statuina giapponese inginocchiata
Non che ciò esaurisca le
sorprese; la presenza della Statuina
giapponese inginocchiata (culmine
a un ciclo tardivo – siamo nel 1935 – di eterodosse nature morte) non può dirsi,
a essere obiettivi, Metafisica in senso stretto, eppure non ci si troverebbe
tanto facilmente a corto di prove se si volesse legittimare un qualche vincolo
di parentela.
M. Dudovich, Novità estive, 1908
Ad
una generazione per la quale il mo(vi)mento Jugend rappresenta, ormai, soltanto
una tappa giovanile appartiene Marcello Dudovich (1878-1962): a rigore, egli
farà fruttare appieno le sue qualità di cartellonista negli anni '20. Nonostante
questo, gli affiche che inventa, ad esempio, per la Federazione Italiana
Chimico-industriale di Padova (Fisso l'idea, 1899) o per i Magazzini Mele
& C. di Napoli (Novità estive, 1908) valgono come interpretazioni tra le
più intelligenti di quella temperie; nella prima, segnatamente, agisce anzi una
distillazione del messaggio pubblicitario che, pur accettandone in tutto la
fisionomia – Beardsley è a un passo – travalica in ultima analisi le istanze
dello specifico momento stilistico incarnando una modernità senza aggettivi.
(P.M.)
Ruggero Berlam nell'architettura triestina
Paolo Marini
Nato a Trieste il 20
settembre del 1854, Ruggero Berlam è l'esponente intermedio di una dinastia di
costruttori che dalla metà del XIX secolo al primo quarantennio del Novecento
impresse un sigillo ineguagliabile alla fisionomia architettonica e urbanistica
della città: il padre Giovanni Andrea (1823-1892) era stato il primo ad
introdurvi i modi di un revival stilistico (quello che genericamente si conosce
col termine assai equivocabile di 'eclettismo') valido a riprendere su tutt'altro
registro l'insegnamento dello storicismo neoclassico, mentre il figlio Arduino
(1880-1946) ne avrebbe perpetuata la lezione temperandola con le istanze più
fresche della modernità, oltre a distinguersi nel campo del grande arredo
navale.
Dopo una prima formazione compiuta presso l'Accademia di Venezia (1871-74),
Ruggero perfeziona gli studi nel triennio successivo nella milanese Accademia di
Brera, sotto la guida di Camillo Boito, all'epoca il maggior teorico del
rinnovamento architettonico italiano, il cui esempio (elaborare un linguaggio
nuovo coll'"annodarsi a uno stile del passato" perdendone però "il carattere
archeologico" e ispirandosi al temperamento "incontestabilmente italiano"
dell'architettura lombarda o delle "maniere municipali del Trecento") gli
rimarrà imprescindibile fino al termine della carriera, pur allargando il raggio
della rivisitazione stilistica ai modelli più maturi del Cinquecento o del
Barocco, facilitato di suo da un talento grafico eccezionale. Vale sempre la
pena ribadire la celebre osservazione di Pietro Sticotti secondo la quale "egli
fece il pittore per tutta la vita, anche quando architettava".
Fin dal principio il nostro ha modo di confrontarsi con progetti di largo
impegno, tra i quali vanno segnalati quelli per la sede della Cassa di Risparmio
locale, per il rifacimento – che immagina in accenti goticheggianti – della
facciata del duomo goriziano e soprattutto per il secondo concorso
internazionale del Vittoriano a Roma.
L'esordio fisico in città coincide con l'arricchimento di due ambiziose imprese
paterne, tra 1878 e 1880. La casa all'attuale civico 24 della via Carducci,
all'epoca accolta dagli applausi della critica, integra il prospetto con un
entusiastico prontuario di soluzioni tardorinascimentali: sarebbe sufficiente
citare le specchiature a graffito e la parte inferiore delle semicolonne giganti
cinta da putti in carosello, ma è difficile tacere dei gruppi leonini chiamati a
sostituire il fogliame in tutti i capitelli maggiori. Se, com'è prevedibile,
patisce d'un eccesso di severità da parte della bibliografia più recente, le
rimane, per consolazione, il primato della fantasia tra i prospetti che fanno
ala a questa importante strada di scorrimento. Gli interventi su palazzo
Hermanstorfer (via Battisti 6), dal canto loro, giocano sulla promiscuità
contraddicendo l'archiacuto nelle aperture del pianterreno con stratagemmi
chiaroscurali di stampo manierista nel comparto centrale (protomi di nuovo
leonine per i mensoloni sfaccettati sotto il balconcino del secondo piano;
ghirlande, rivestimenti embricati e testoni intorno alle quattro finestre
mediane dello stesso).
In una decina d'anni (1884-1893), Ruggero sparge altrettante costruzioni sul
colle di san Vito: quattro risultano commissionate dai Bazzoni. All'incirca come
un segnale d'allarme trilla il villino al civico 4 della via omonima (1888); le
munizioni cilindriche d'angolo e soprattutto gli slittamenti affannosi imposti
agli strombi delle finestrelle toscaneggianti palesemente non sono estranei a
trame caricaturali. Un anno dopo, comunque, eccolo riacquistare disciplina nella
ferma impostazione volumetrica della villa Haggiconsta, ritirata in un parco sul
viale Romolo Gessi. La redazione finale del progetto sfronda gli accenti
fiabeschi del concepimento e affida al corpo occidentale l'intensificazione d'un
torretta appena leggermente capricciosa, il cui modulo verrà ripreso di lì a una
quindicina d'anni per i rinforzi del quinto caseggiato Aidinian in via dei
Giustinelli.
Casa Leitenburg (1889) ha la perentorietà del capolavoro e il carisma del
simbolo. Affermazione di piena consapevolezza artistica non meno che ideologica,
è il reinvestimento definitivo del sempre presente auspicio boitiano nel
contesto congenitamente ricettivo della città irredenta. Incunabolo locale di
uno stile che Pietro Sticotti appellò 'fiorentino' ma che secondo l'analisi
degli studiosi successivi si inclina a recepire suggerimenti da un più ampio
circondario centroitalico, sospende l'incredulità e s'installa nell'indaffarato
crocevia Giulia/Rossetti con felice voracia appropriativa. Tonante, piena di
grazia e maestà, si fa forte di una deferenza mimetica personalissima che non
incrinerebbe l'assetto di via de' Tornabuoni a Firenze, Piazza Tolomei a Siena o
Corso Vannucci a Perugia. Tutti i caratteri della famosa 'maniera municipale'
agiscono a piena potenza spazzando via ogni imbarazzo: la sfida è decisamente
vinta da questo palazzo 'in stile' tra i pochi a non avere il birignao e dove
non si annusi la polvere dell'accademia. Le due fronti – più rappresentativa
quella su via Giulia – accoppiano o isolano finestre architravate nel primo
piano e a pieno centro nel secondo e terzo, ove sono rimarcate, di contro lo
sfondo minuto del cotto, da estradossi a conci più larghi che le assecondano in
un quasi impercettibile dirottamento archiacuto; la cimasa, infine, riceve la
calda stesura dell'affresco e proietta degli sporti in legno a sostenere la
rustica linea di gronda. I ferri battuti che scandiscono il prospetto in
riccioli di disegno araldico sono richiamati nella affilata lucerna appesa allo
spigolo, arieggiato più su dalla stupenda loggia a pianta pentagonale: questa si
esalta nello stacco cromatico delle balaustre e del fusto in pietra bianca che
illuminano il profilo della portafinestra, ancora distintamente affrescato a
fiorami (e bianco sarebbe, a onor del vero, anche il partito di pietra svolto
nei primi due livelli, ovvero fino all'altezza della loggia, se gli scarichi dei
veicoli in traffico costante non l'avessero intriso con una spessa patina di
nerofumo).
Un equilibrio mai eguagliato dalla miriade di imitatori o infatuati (fino al
1940 sorgeranno oltre duecento fabbricati in quest'ispirazione, specie nel
distretto di Barriera Vecchia), ma nemmeno dallo stesso ideatore. Berlam
ritenterà il colpo nel 1906, di nuovo sfruttando un incrocio, e questa volta
oltremodo decentrato (vie Piccardi/dell'Eremo). Brachilineo cassettone asperso
d'ingentilimenti sottili sottili, il palazzo scala la fronte secondaria sul
dislivello di via dell'Eremo, ciò che comporta un effetto ponderale rovinoso, da
piombo nelle ali, anche se questa stessa pesantezza, da un altro punto di vista,
può trasformarsi nello spettacolo di una potenza selvaggia, espressivamente
oltre la portata di tanti altri interventi architettonici del periodo. Ritorna
l'incantamento e l'insegnamento specifico di Casa Leitenburg a disegnare un
Medioevo più vero del vero, e le finiture poche volte sono state altrettanto
intonate: le cartelle a saporite sfumature d'affresco sull'attico, il balcone
foggiato alla veneziana, i listelli marmorei che striano in orizzontale la
densità della massa, ecc.; malgrado tutto, qualcosa di importante si è perso, o
non è riuscito a filtrare. Così, la ricchezza di concetti che aveva presieduto
alla creazione del prototipo adesso si traduce in una spoglia senza dubbio
evocativa, ma ormai vacua e scaricata, orfana del significato iniziale.
In rapporto al filone, quest'opera può dirsi la battuta d'arresto. Fino a questo
momento (per non dire di quello seguente), comunque, le strade intraprese
saranno quasi sempre costellate di riuscite, in una gamma di proposte, per
giunta, sorprendentemente ampia; come se in effetti l'artista potesse operare in
modo davvero proficuo solo a patto di praticare la differenziazione sistematica
della cifra linguistica.
Tornando agli anni 1890, vediamo che lo spirito in qualche modo pacificato così
come espresso nella villa Haggiconsta, fissa uno standard di eccellenza per il
versante più classicista dello storicismo eclettico con un progetto a beneficio
del Circolo Artistico di Trieste, consistente in un salone elevato sopra il
caffè del Teatro Fenice e schermato da una facciata (via san Francesco) di aureo
senso proporzionale, esemplare per nitidezza e semplicità. Sarà necessario
attendere lo scadere del decennio perché il Berlam ripristini una analoga
felicità d'ispirazione. Tornando all'isolato Leitenburg, eccolo quindi
contrassegnarne il capo opposto, all'angolo con la via Piccolomini, col marchio
di un caseggiato che Marco Pozzetto annoverava tra i più belli costruiti in
città alla fine del secolo. Difficile dire, tra parentesi, se per
l'apprezzamento delle sue linee il massiccio maquillage cui è stato sottoposto
da poco sia meno nocivo dello scadimento cromatico e dell'immancabile
annerimento da smog subiti in precedenza. Il palazzo (via Giulia 5) resta
prodigo di sottigliezze. Al pianoterra, sfilata di arconi sorreggenti
un'indovinatissima teoria di oculi circolari, per la cui valorizzazione è di
rigore un mezzanino in sordina; piano nobile arbitro d'eleganza con finestre e
portefinestre (tre i balconi) rimarcate dal cesello delle candelabre, non
concesso invece alle aperture rettangolari nel livello superiore, che l'assenza
di marcapiano rende compositivamente partecipi dello stesso settore; ripasso di
ghiere intorno alle finestre dell'ultimo piano, siglato col grafismo erudito del
cornicione rinascimentale.
Se anche a Trieste sono maturi i tempi per la fioritura del Liberty, il nostro
si dichiara avverso alle sue novità. Le due villette edificate per i Modiano
sulla via Rossetti (civici 77 e 79) provano ad adattarne qualche locuzione, ma
l'esercizio appare svolto controvoglia. L'unica maniera, del resto, che Ruggero
(almeno in ambito cittadino) trova per attuarlo con profitto è quella di
contraddirne gli assunti saggiandone l'applicabilità al suo bagaglio storicista.
Risultato, quella bizzarra creatura che è la casa al numero 36 di via Piccardi.
Decorata in libertà, zeppa di consapevoli incongruenze (il derisorio parato
floreale dalla qualità meno che scolastica, l'impiego dei mattoni a vista), sa
chiaramente di truffa. Indicativo comunque dei suoi gusti e disgusti, sorta di
confessione burlesca, anzi, il lavoro sarà rettificato nel palazzo adiacente
sopra descritto (civico 38), non a caso senza troppa soluzione di continuità
nella scelta dei materiali, per riaffermarne la correttezza d'uso.
Palazzo Vianello (1905) cerca la meraviglia a qualsiasi costo. Lo stentoreo
manto orchestrale che lo affardella di obelischi, statue, concrezioni, applique
e arzigogoli rasenta la perversione, segnando il punto di non ritorno nella
ricerca ornamentale del nostro. Diamo atto che la costruzione non assomiglia da
vicino a nessun'altra di quelle che l'hanno anticipata, così da non accusare
alcun segno di stanchezza e vanificare la spinta a eventuali confronti. Per
quanto ingombrante possa risultare, vive in effetti di personalità propria. I
motivi della facciata fioccano con tutta l'energia possibile e distolgono
l'attenzione dal repertorio profuso sugli altri lati, dove pure non mancano
occasioni d'interesse: quasi sconosciuto, infatti, il fianco su via XXX Ottobre,
sul quale si apre un portone stravagante per esubero di marmi, nel cui tettuccio
due medaglioni dipinti con le effigi di Leonardo e Michelangelo alludono ancora
una volta al 'genio italico'. Sarà questa connotazione, insita nel barocchismo flamboyant del
complesso, che la critica strumentalizzerà per contrapporlo ideologicamente
all'ascetica proposta 'jugend' della Narodni Dom di Max Fabiani, edificata nello
stesso momento quasi dirimpetto, prima che un'insulsa replica del Vianello
venisse piazzata all'altro capo dello slargo, dirimendo in modo irrimediabile la
vitalità del contrasto.
Nel biennio 1903-1905, Ruggero, avvalendosi per la prima volta della
collaborazione del figlio Arduino, architetta su commissione del maggiorente
armeno Giorgio Aidinian una vera e propria cittadella, sfruttando una balza del
colle di san Vito. Sfugge la leggerezza di battezzarlo appunto 'quartiere
armeno', questo paraggio residenziale che nel ricordo e persino alla visione
diretta trascolora in un esotismo Romantico col quale in realtà non ha niente da
spartire. L'insieme, sincretico, è articolato in cinque blocchi. Come si
presenta? Il primo lotto (via Giustinelli 3) sta appresso la già esistente
chiesetta dei Mechitaristi. Procurando di non rubarle la scena, inventa a tergo
un prospetto, aperto sul pendio, con bifora centrale entro arcone a sesto pieno
sovrastato dal cornicione su cui siede una coppia di sentinelle leonine, il
tutto concluso da un fastigio mistilineo; la seconda casa (civici 2 e 4 della
stessa via), impersonale, si presta come complemento volumetrico; lungo la
sottostante via Benedetto Marcello s'inerpicano due palazzi gemelli,
temporaleschi nella loro progressione di bifore 'in maggiore' – il marcapiano
degli attici, fittamente dentellato, prevede il rinforzo di mensole scalate e
colonnine che insistono a loro volta su mascheroni in
rictus. Troneggia per finire (via Giustinelli 5) un casamento fiero delle
sue astruse torrette angolari: lo si scorge da più e più zone della città.
Il permanente rispetto del dettato boitiano (torna la propensione 'medievalista'
nelle case gemelle) e il vincolo della citazione (il manierismo del Sanmicheli e
dell'Alessi – palazzo Marino a Milano - rivisitato dall'edificio-fortezza) non
inibiscano l'ammirazione, ché sono proprio questi a permettere lo sfogo di umori
insospettati: una reverie pseudoepica,
nella cui concertazione al portamento guerresco si aggiunge una sottolineatura
iniziatica, quando non deliberatamente sinistra.
Se un simile effetto non si attiva con la Scala dei Giganti (1907), la colpa va
addossata unicamente alla funzione urbanistica che il manufatto deve assolvere:
saldare cioè il colle di san Giusto con lo snodo viario cruciale della Città
Nuova (piazza Goldoni). Le rampe ammantano il traforo, e il frastuono, della
Galleria Sandrinelli, sacrificando giocoforza le loro risorse poetiche,
d'indubbia originalità; una vigorosa stimolazione ancora una volta
neomanieristica modella il progetto su connotati vagamente antropomorfi.
Entro la Prima Guerra Mondiale, i Berlam – adesso associati a tutti gli effetti
– firmano la maturazione del loro programma comune con due imprese che
s'impongono a consuntivo e superamento di un'intera concezione estetica.
Inaugurato nel 1912, dopo un avvicendarsi di traversie burocratiche non poco
ambigue, il Tempio Israelitico di Trieste ha fama di essere il più grande
d'Europa. Vero o no, qua importa evidenziare che si tratta dell'architettura
meno neo-qualcosa compiuta in città da oltre un secolo in quella parte
(escludendo le realizzazioni liberty degne di essere definite tali, beninteso).
Le deduzioni storiche sono riassorbite in un discorso finalmente autonomo dall'
'eclettismo' come professione di fede, che anzi si vede convertire
metaforicamente da Bibbia a vocabolario. I prestiti stilistici – a maggior
ragione dotti e abbondanti come mai erano stati nelle edificazioni eclettiche
del posto – ora valgono quali ideali medaglie al merito, esautorati dal ruolo di
motivazione portante grazie alla quale (e a nient'altro) l'architettura poteva
considerarsi degna d'essere praticata o dichiarare un senso.
Per scrupolo d'inventario ne vanno perciò citate le soluzioni decorative, dalla
stella di David estrapolata a rosone (lato su piazza Giotti) al fermento
elettrizzante del portale maggiore, dal dado merlato sullo spigolo del modulo
principale, alla proiezione dell'organismo absidale nel lato su via Zanetti
(memore dei modi normanni nella Palermo di Ruggero II) fino al paramento
policromo per la parte interna dello stesso, designato a esaltare l'Arca Santa
tra il nero marmoreo dell'emiciclo e la calotta indorata. Presumibilmente per
volere di Arduino, domina e impone all'edificio il suo vero carattere una norma
progettuale fondata sull'articolazione monumentale dei puri volumi.
La sede per la Riunione Adriatica di Sicurtà (tra 1911 e 1914) è davvero un
imponente sforzo corale. La regia dei Berlam, infatti, spartisce, la riuscita
con le maestranze all'opera nel completamento scultoreo e accessorio. Va ammesso
che almeno in parte quest'ultimo non gioca a favore dell'impresa: mentre il
Palazzo Vianello accettava come necessità strutturale l'apparato di Gianni
Marin, ora le sculture in facciata (piazza della Repubblica), dovute allo stesso
autore, cui si affianca Giovanni Mayer, sembrano messe là per dovere d'ufficio.
Convenzionalità tuttavia riscattata dal lavoro di Domenico Calligaris, 'mago'
del ferro battuto cui spetta il corredo d'inferriate che schermano le finestre
su tre lati del pianoterra, oltre alla regale cancellata in bronzo e gli
ingabbiamenti delle colonne all'ingresso sulla piazza. Questa griglia
d'ammirevole artigianato prelude allo spettacolo che Ruggero teatralizza
superbamente con l'imbotte trapuntata di stucchi puro Rinascimento, l'alternarsi
del bianco e rosa per il marmo delle colonne nel vestibolo avanti fino alla
quinta sgargiante del disegno per la fontana del Gladiatore, nella cui
realizzazione il Marin riprende la sua vena migliore seducendo con la variopinta
sinfonia del bronzo dorato, il rosso di Verona per i leoni e il bianco di
Carrara per l'anatomia dell'eroe. Su per lo scalone d'onore (parapetto con
dischi a traforo, scudi in bronzo alle pareti, soffio di stucchi sui soffitti) e
gli ambienti di rappresentanza prosegue incessante la ricerca cromatica e
formale, magnifica in tutti i particolari, come ininterrotto si svolge il
fraseggio chiaroscurale su tutti e quattro i lati del palazzo, a mo' di parata,
nel candore della pietra d'Aurisina, e con un gusto della grandeur attribuibile
in tutto alla mano di Ruggero, per quanto il figlio non si esenti
dall'alleggerirne il tono col freschissimo tassellato degli accessi secondari
(vie santa Caterina e Dante Alighieri). Rispetto all'emancipazione tanto vistosa
manifestata nel Tempio per la comunità ebraica, l'edificio in esame attesta un
ritorno a posizioni decisamente più conservatrici. In ciò non è obbligatorio
riconoscere una regressione della tempra inventiva da parte dei Berlam, ma
piuttosto – soprattutto per quel che attiene a Ruggero – un monito esplicito e
vagamente malinconico a non dimenticare, sull'orlo di una rivoluzione assoluta
tanto per la storia quanto per l'arte, ciò che in passato è stato utile a
costruire l'immagine della grandezza e dell'impulso ottimista di una città per
molti versi unica.
(P.M.)
Muggia,
Muja
in
dialetto
triestino,
è
un
comune
della
provincia
di
Trieste
con
13.140
abitanti,
il
comune
più
a
sud
della
regione
Friuli-Venezia
Giulia,
confinate
con
la
Slovenia.
La
popolazione
è
quasi
per
la
sua
totalità
di
madrelingua
italiana.
La
minoranza
slovena
è
concentrata
soprattutto
nella
zona
di
Rabuiese-Vignano/Rabujez-Vinjan,
Belpoggio/Beloglav
e
nella
frazione
di
Santa
Barbara/Korošci.
Le
origini
di
Muggia
sono
protostoriche
(età
del
ferro,
VIII-VI
secolo
a.C.),
con
l’insediamento
dei
castellieri.
Dopo
la
fondazione
di
Aquileia,
nel
181
a.C.,
il
territorio
subì
la
conquista
Romana
e
Muggia
divenne
colonia,
Castrum
Muglae,
presidio
a
difesa
delle
incursioni
degli
Istri
e
degli
Avari.
Alla
caduta
dell'Impero
romano
d'Occidente,
Muggia
subì
le
dominazioni
dei
Goti,
dei
Longobardi,
dei
Bizantini
e
dei
Franchi.
Nel
931
i
re
d'Italia
Ugo
e
Lotario
la
cedettero
al
Patriarcato
di
Aquileia.
Nel
1420
passò
alla
Repubblica
di
Venezia
e
progressivamente
gli
abitanti
dei
colli
circostanti
si
trasferirono
sulla
riva
del
mare,
nel
"Borgo
Lauro",
dove
tutt'oggi
è
concentrata
la
cittadina.
Con
il
dissolversi
della
Repubblica
di
Venezia
(1797)
e
il
decennio
di
conquista
napoleonica
(1805-1814),
Muggia
passò
sotto
il
dominio
asburgico,
sviluppando
una
considerevole
industria
cantieristica
navale,
che
continuerà
la
sua
attività
fino
alla
seconda
metà
del
XX
secolo,
quando
le
nuove
strategie
produttive
la
resero
poco
competitiva.
Nell'Ottocento
il
dialetto
muglisano,
dialetto
di
tipo
istro-veneto
che
per
lungo
tempo
convisse
con
l'attuale
muggesano,
si
estinse.
Alla
fine
della
prima
guerra
mondiale
il
territorio
di
Muggia
passò
al
Regno
d'Italia.
Nel
1923
il
comune
di
Muggia
cedette
la
frazione
di
Albaro
Vescovà
e
parte
della
frazione
di
Valle
Oltra
al
comune
di
Capodistria.
Dopo
l'8
settembre
1943
il
territorio
passò
sotto
l'amministrazione
tedesca
diventando
parte
dell'Adriatisches
Küstenland.
A
seguito
del
trattato
di
pace
del
1947
e
delle
definitive
rettifiche
territoriali
previste
dal
Memorandum
di
Londra
del
1954,
Muggia
dovette
cedere
alla
Jugoslavia,
Barisoni
(Barizoni)
Bosini
(Bosinj)
San
Colombano
(Kolomban)
Crevatini
(Hrvatini)
Elleri
(Elerji)
Faiti
(Fajti)
Plavia
Monte
d'Oro
(Plavje)
Premanzano
(Premančan)
Punta
Grossa
(Debeli
Rtič)
e
nuovamente
Albaro
Vescovà
(Škofije)
-
più
di
10
km²
con
3.500
abitanti,
quasi
la
metà
del
suo
territorio.
Il
10
novembre
1975
venne
firmato
il
trattato
di
Osimo
che
sancì
gli
accordi
riguardo
i
confini.
Oggi
la
cittadina
di
Muggia
poggia
la
sua
economia
sul
turismo
e
sul
commercio.
Sull’antico
colle
di
Muggia
Vecchia,
si
trova
l'antica
chiesa
dedicata
a
Maria
Assunta,
eretta
su
una
precedente
del
VIII
o
IX
secolo,
della
quale
si
conservano
alcuni
elementi
sopravvissuti
al
rifacimento
avvenuto
nel
secolo
XIII:
l'ambone,
il
leggio
e
due
grandi
pilastri,
a
destra
ed
a
sinistra
dell'ingresso.
Vicino
alla
chiesa
è
stato
realizzato
un
Parco
archeologico
(Castrum
Muglae),
dove
sono
venuti
alla
luce
resti
di
un
borgo
medievale:
una
strada
con
cinta
muraria,
l'officina
di
un
fabbro
e
diverse
abitazioni
private,
una
di
queste
conserva
resti
del
piano
superiore
e
della
scala
d’accesso.
La
chiesa,
dedicata
ai
Santi
Giovanni
e
Paolo,
edificata
sui
resti
di
un
precedente
edificio
di
culto,
venne
consacrata
nel
1263
dal
Vescovo
di
Trieste
Arlongo
dei
Visgoni.
Nel
XIV
secolo
subì
lavori
di
ingrandimento
e
verso
la
metà
del
XV
secolo,
la
facciata,
che
presenta
la
parte
superiore
trilobata,
venne
rivestita
in
lastre
di
pietra
bianca
d'Istria.
Nella
parte
superiore
venne
collocato
un
imponente
rosone
sorretto
da
sedici
raggi
in
marmo
rosso
e
pietra
bianca,
in
stile gotico,
al
cui
centro
si
trova
l'immagine
della
Madonna
con
il
Bambino.
Lo
contornano
tre
epigrafi:
quella
di
destra
menziona
il
podestà
Pietro
Dandolo
(1466-1467),
che
seguì
il
completamento
dell'opera,
quella
di
sinistra
ricorda
il
restauro
del
1865
e
quella
sopra
l'inizio
dei
lavori
della
facciata
sotto
il
Vescovo
Nicolò.
Nel
1873,
venne
costruito
l'abside
per
allungare
il
presbiterio.
Nella
parte
inferiore
della
facciata,
due
eleganti
e
slanciate
finestre
gotiche
spiccano
ai
lati
del
portale
a
cui
è
sovrapposta
una
lunetta
ad
arco
con
la
Santissima
Trinità
e
i
Santi
Giovanni
e
Paolo.
L'interno
del
Duomo,
diviso
in
tre
navate,
separate
con
quattro
archi
a
tutto
sesto
e
copertura
a
capriate,
alla
fine
del
1930,
ha
subito
sostanziali
consolidamenti
e
restauri,
compresa
l'asportazione
degli
altari
barocchi
laterali.
Rimane
un
frammento
dell’affresco
del XIV
secolo
che
occupava
la
navata
centrale.
Il
tesoro
del
duomo
conserva
alcuni
lavori
in
argento.
Il
campanile
è
in
stile
veneziano,
a
base
quadrata
con
cuspide
ottagonale.
Paolo Marini
Sugli affreschi che decorano le
navate della piccola basilica dell'Assunta sul colle di Muggia Vecchia esiste
ormai una ben nutrita bibliografia. La pionieristica indagine di Pia Frausin
aprì nel 1947 la strada ad una serie di studi che sono serviti a gettare luce -
ma forse in maniera non ancora definitiva - sulla datazione e sul complesso
retroscena culturale di queste pitture, che continuano ad affascinare come un
piccolo ma terribilmente intricato enigma storiografico, nonché per il loro
valore artistico, che agli occhi di chi scrive regge e risponde magnificamente
con tutta la classe della sua araldicità al reiterato rimprovero di
'provincialismo' che salta fuori ad ogni piè sospinto nell'eventuale confronto
con altri documenti della cultura pittorica romanico-bizantina.
Molto è stato scritto e molto è stato chiarito, dunque; quasi sempre ferma
restando l'acquisizione di completezza dei frammenti - si perdoni l'ossimoro -
che dei vari cicli ci sono pervenuti: a parte il rinvenimento di un larvato
strato ornamentale preesistente alla stesura delle figure e delle scene sui
pilastri e la parete di sinistra nella navata centrale, sembra che non rimanga
altro da scoprire su questi muri dai quali tanta pittura è caduta sparendo per
sempre. È vero che, comunque, la nostra cultura ancora tardoromantica sovente ci
predispone a un interesse più accorato verso la rovina che verso il monumento
intatto: pur premettendo di dovere il siparva licet componere magnis mi
sento di affermare che, appunto in virtù del loro stato lacunoso, queste
vestigia acquisiscono una qualità suggerente non dissimile da quelle della
sepoltura tebana della regina Nefertari. E così, accanto a campiture che hanno
superato piuttosto bene la prova del tempus
edax (ma qui si tratterebbe di
determinare una volta per tutte l'esatta entità risarcente dei restauri più
volte effettuati nel corso degli ultimi cent'anni), specie negli episodi mariani
e martiriologici della nave principale, permangono, nel mutismo assoluto della
calce, brandelli dall'aspetto d'essudato salino, evanescenti lemuri che
conservano trepidanti un qualche ricordo di colorazione e conformazione. A che
cosa, per esempio, potrebbero riferirsi quel pesce e quel remo che chiazzano
l'imposta dell'arcata sul quarto pilastro della navatella a destra?
Contentiamoci di rilevare il più che discreto indugio ittiologico qua e là
dispiegato nel nostro santuario, dal ricco campionario acquatico del torrente
guadato dal san Cristoforo alla misteriosa traversata di quel barchino affollato
di testine romaniche, la cui pagaia affonda in profondità ben pescose (sarà
quindi forzatura il citare la terminazione pisciforme del pastorale retto dal
san Zeno a memoria delle sue origini marinare?).
Eppure, quanto a rinvenimenti, potrebbe non essere stata detta l'ultima parola.
Nel citato saggio della Frausin si trova in nota, infatti, un'indicazione di
riporto circa la sussistenza primonovecentesca di una scena raffigurante il
Battesimo di Gesù, ubicata genericamente nella navata di destra. Ma l'autrice
riferisce di seguito che di tale affresco "ora non è traccia". Rimanendo in
questo settore della chiesetta, la studiosa non fa comunque menzione dei resti,
in sé decisamente vistosi, di un' immagine - che Giuseppe Cuscito ipotizza possa
trattarsi di un Albero della vita -
stesa sulla parte interna del pilastro addossato alla controfacciata, piuttosto
ben conservata nonostante il drammatico accartocciamento della muratura; ma è da
credersi che all'epoca il cantuccio fosse ingombrato da qualche arredo. La
porzione s'interrompe a circa due metri d'altezza dal pavimento; più in alto
permane una chiazza con tracce colorate e nulla di più. Ecco che però se
volgiamo lo sguardo sul muro attiguo (contro il quale è attualmente sistemato il
confessionale), verso l'alto, noteremo un'ulteriore chiazza che a dispetto della
sua davvero esigua estensione, pare, al confronto, assai più eloquente.
1. Frescante duecentesco, lacerto. Muggia, basilica dell'Assunta.
2. Muggia, basilica dell'Assunta, parte sinistra della controfacciata.
Alla tangenza della parete col pilastro di cui sopra emergono i tratti di quello che sembrerebbe proprio un braccio sinistro piegato a "V" e con la mano aperta (fig. 1): il pollice e le altre quattro dita sono nettamente distinguibili, con in più, a mo' di bisettrice dell'angolo formato dalla "V", un elemento verticale che potrebbe essere un bastone. Per il resto si direbbe che la parete taccia del tutto: nient'altro che traspaia alla sua superficie. Superficie tuttavia in gran parte celata da un quadro entro semplice cornice in legno, rappresentante, per quel che la densa penombra di quest'angolo di navata permette d'intuire, l'Assunta con il Bambino e santi nei modi alquanto rudimentali dell'arte provinciale (fig. 2). Ombra fitta, difficoltà per l'indagine muraria ravvicinata. E se in effetti fossero stati per lungo tempo i custodi involontari di un qualche segreto? Se il santuario volesse ricompensarmi per gli assidui pellegrinaggi - sia pur prettamente laici - che da una dozzina d'anni non mi stanco di tributargli, con una emozione che di volta in volta non si affievolisce, ma si sviluppa articolandosi, per così dire, in un'architettura emotiva sempre più salda, a modo suo progressiva acquisizione di fede?
3 - Frescante duecentesco, lacerto.
Muggia, basilica dell'Assunta.
4 - Frescante duecentesco, lacerto.
Muggia, basilica dell'Assunta.
Non deciso a rassegnarmi (un po' come David Hemmings in Profondo
rosso, sempre si parva licet)
m'impongo un supplemento d'indagine e monto sulla seggiola messa accanto al
confessionale per por-tarmi il più vicino possibile - la mano saluta dall'alto
di almeno tre metri e mezzo - e quindi con la dovuta cautela provo a scostare il
vecchio quadro sacro, manovrandolo per l'angolo in basso a destra della cornice;
ed ecco la ricompensa: quasi in linea con l'incorniciatura stessa, quel tanto
che basta per essere sottratto alla vista, scopro col naso all'insù un altro brandello
di muro dipinto, un'area approssimativamente triangolare al cui lato (lo
definirei un triangolo equilatero, ma non potendo beneficiare d'una visione
frontale potrei sbagliare) attribuisco la lunghezza d'una sessantina di
centimetri, ed entro la quale si sviluppa un triplice sistema di linee, alquanto
elaborato (fig. 3): fluide quelle nella parte più bassa (fig. 4),
5 - Frescante duecentesco, lacerto. Muggia, basilica dell'Assunta.
6 - Frescante duecentesco, lacerto. Muggia, basilica dell'Assunta.
più brevi e componenti una
sorta di schema a marezzatura quelle verso il centro (fig. 5), e convergenti al
margine 'polarÈ di una forma tondeggiante che ricorda il disegno d'un globo con
tracciati i meridiani quelle più in alto (fig. 6, a sinistra) - alla sinistra
delle prime, ancora qualche pennellata a uncino: tutte a contorno di tinte
delicate che richiamano all'istante - così come accade per il lacerto della
mano sopra descritto - quelle che i visitatori del santuario possono apprezzare
nei preziosi affreschi che ben conosciamo; caratteri, questi, di linea e colore
che mi paiono inequivocabili, a dispetto della gibbosità che affligge anche
questo tratto di parete.
Ma questi due frammenti da soli non potrebbero certo inverare quell'informazione
di un secolo fa che sembrava purtroppo irrimediabilmente smentita già ai tempi
dell'analisi della Frausin. La mano mozzata e i reticoli di strie semiastratti,
non si dimostrano affatto sufficienti per comporre la sia pur remota ossatura
grafica di una rappresentazione come quella di cui la studiosa aveva preso nota,
compiangendone lo smarrimento. Perlomeno, non ancora ... o dovrei dire invece non
esattamente? La Frausin, per la
cronaca, citava anche un'antica osservazione di Max Dvorak su "un frammento di
rappresentazione dell'ultimo giudizio nella facciata interna, di cui ora non c'è
più traccia"7.
Nulla di singolare, a livello iconografico: la scena era di prammatica nelle
controfacciate dell'epoca - si pensi soltanto all'esempio preclaro di Santa
Maria di Torcello, o, più tardi, a quello giottesco dell'Arena. Ebbene, a rigor
di logica l'ubicare il battesimo di Cristo nella navata
destra e il succitato brano nella facciata
interna non significa, ai fini
del nostro problema, violare il principio di non-contraddizione, siccome la
facciata interna comprende, ovviamente, i termini di tutte e tre le navate,
destra inclusa. I due insiemi s'intersecano in coincidenza della famosa parete:
se mai affresco ancora visibile a Muggia Vecchia all'inizio del Novecento deve
essere rintracciato, ebbene questo va cercato proprio qui. E, pur essendo gli
appigli quasi infinitesimi, non comincia forse a convincere sempre meno la
conciliazione di quella mano aperta con la necessità finora intravista di
integrarla - anche se con la pura e semplice immaginazione - nella scena
cristologica cui dovrebbe appartenere? Come mano del Battista persuade punto o
poco, e il braccio risulta per di più panneggiato: san Giovanni non è sempre
figurato a braccia nude? Quanto a mano di Gesù non è neppure il caso di
discutere in tale contesto: è retorica la domanda sul perché non avrebbe dovuto
svestirsi. In tale contesto, attenzione! Dimentichiamo un attimo la composizione
standard del Cristo come asse di simmetria nella scena del Giudizio,
e proviamo invece a immaginarcela decentrata, magari fino al margine del quadro
o dell'affresco; proviamo addirittura ad adattare, a questo punto, il modello
medievale del Cristo giudice a quei pochi resti oggetto della scoperta di cui
stiamo riferendo. Potrebbe quadrare? Non intendo affatto rinunciare a procedere
coi piedi di piombo, ma non posso trattenermi dall'avvertire un fortissimo
sospetto di congruenza: ora sì che la disposizione del braccio acquisterebbe un
senso in rapporto alla falsariga dell'ipotetico soggetto (e quindi quel 'bastone-bisettricÈ
di cui dicevo andrebbe riqualificato come parte dello schienale di un trono),
tanto più che quelle 'linee a meridiano' nella zona superiore del lacerto sotto
il quadro ritmano una porzione che collima cromaticamente con la manica (un tono
mattonoso), assumendo l'aspetto del gomito panneggiato del braccio destro; i
meridiani sarebbero perciò le pieghe della tunica (fig. 6). Sulla scia di questo
spunto, andiamo avanti: finiremo coll'assegnare a quelle `linee fluidÈ della
zona inferiore la funzione d'alludere al ricadere della veste del Redentore tra
i suoi piedi, uno dei quali - il destro - parrebbe adesso decisamente
ravvisabile in quelle pennellate 'a uncino' (alias il contorno della dita), che
suddividono due campiture cromatiche tra cui una dall'intonazione carnicina. I
tasselli disponibili per la soluzione del rompicapo finiscono qui, ma resta
ancora da dire la cosa più importante: ossia, che su questa parete, e solo
su questa parete della chiesa, i resti degli affreschi non costituiscono una
pellicola rialzata rispetto la superficie della parete che li conserva, bensì
appartengono a un film pittorico ad essa sottostante:
in altre parole, i brani in questione sono soltanto quanto oggi emerge da
uno strato d'intonaco steso al di sopra d'una superficie dipinta di ampiezza
indefinita e che, in teoria, potrebbe anche interessare una vasta parte del muro
da cui occhieggiano con la loro fin adesso inudita richiesta di liberazione.
7 - Ricostruzione grafica dell'affresco.
Se in effetti l'intonaco venisse scrostato, la parete potrebbe restituire nella
sua (si spera) intatta nudità proprio quella scena escatologica che per il
momento, nella mia idea (fig. 7), sarebbe potenzialmente allusa dal filo
d'Arianna di quel paio di lacerti che, pure, sono sempre sfuggiti all'attenzione
degli studiosi o, al limite, poichè da più parti si legge di non meglio
precisati 'frammenti sparsi' che nella genericità della definizione potrebbero
comprendere pure quelli di cui ho parlato, male interpretati nella loro realtà
stratigrafica. Per concludere, mi ripropongo di tornare su quanto l'eventuale
e fortemente auspicabile risarcimento delle tracce che ho descritte ricomporrà,
ci si augura ricongiungendole, in una forma finalmente definibile da un
qualsivoglia nome o titolo.
(P.M.)
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